Numero 46/2016

17 Novembre 2016

BREXIT: quali effetti sul mercato della birra?

BREXIT: quali effetti sul mercato della birra?

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Tante sono state in questi ultimi mesi le considerazioni circa gli effetti del voto del 23 giugno 2016, che ha determinato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Oggi noi, da buoni birrofili quali siamo, analizzeremo il fenomeno calcolando il costo della Brexit dalla prospettiva degli addetti ai lavori del settore brassicolo.

Pierre Olivier Bergeron, segretario generale di Brewers of Europe, l’Associazione degli industriali europei della birra e del malto, sottolinea il valore strategico del movimento birrario europeo e non nasconde le insidie legate all’uscita di Londra dall’Unione.

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Ad oggi il settore britannico vale il corrispettivo di circa 24,6 miliardi di Euro, valore che ci permette di comprendere la ferma volontà di salvaguardarlo, come emerge dalle parole dello stesso Bergeron, il quale afferma con entusiasmo il sorpasso dei britannici sulla Germania per numero di produttori: 1.700 tra grandi, medi e piccoli, sui 6.500 complessivi rappresentati da Brewers of Europe, grazie anche ad una crescita che, tra il 2013 e il 2014, ha fatto registrare un + 7,8% di assunzioni nel settore, tra impieghi diretti nella produzione e indotto.

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E’, a riguardo, notizia di pochi giorni fa la pubblicazione da parte della British Pub Association di un manifesto dove ci si preoccupa dei risvolti della Brexit circa la tenuta del mercato del lavoro britannico, nel quale si chiede, nello specifico, di garantire la libera circolazione dei lavoratori e della ricchezza mantenendo in vigore la regola del c.d. l’Acquis comunitario (l’insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici condivisi dagli stati membri dell’Unione europea). E’ una chiara tecnica che definiremo a tratti intimidatoria, rivolta al primo ministro May e a tutto l’esecutivo di Londra, che fa breccia sul peso consistente che il movimento garantisce, sia in termini di addetti impiegati sia in termini di entrate fiscali: quasi 325.000 posti di lavoro, per una cifra vicina ai  9 milioni di Euro di tasse.

Quello della birra è infatti, un settore in espansione, anche in quei Paesi a forte vocazione vinicola come l’Italia, ultimo in Europa come consumo di birra pro capite, che rappresenta solo il 3,4% dei 384 milioni di ettolitri di birra prodotti nell’Ue ogni anno; arretratezza certamente non dovuta alla crisi, quanto piuttosto a una sorta di rifiuto di tipo culturale che ha sempre posto la birra in subordine rispetto al vino.

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E’ utile, per comprendere meglio la situazione italiana, soffermarsi sul fatto che alle cessioni all’estero di storici marchi industriali come Peroni e Moretti si è risposto con un evidente e positivo dinamismo delle pmi, sia per quanto riguarda la produzione interna sia per quanto riguarda l’attenzione rivolta ai mercati esteri. Crescita che, ovviamente, avrebbe solo da guadagnare da una riforma, al ribasso, del sistema di calcolo delle accise, da tempo auspicata da associazioni di categoria e addetti ai lavori: secondo le ultime rilevazioni di Assobirra una riduzione della pressione fiscale su produzione e commercializzazione della birra in Italia porterebbe ad un aumento delle assunzioni pari a 7.000 nuove unità, se si prende come esempio il modello britannico che, in virtù del taglio delle accise di 23 cent/Eur per ogni pinta ha permesso la creazione di ben 26.000 nuovi posti di lavoro.

 

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