Numero 18/2019

30 Aprile 2019

Craft Beer e Rugby, sacrificio per passione

Craft Beer e Rugby, sacrificio per passione

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Il mio impegno sportivo non mi ha mai regalato grandi risultati.
Come si dice “l’importante è partecipare” perché lo sport dà tanto a livello formativo, è importante per la società, per i bambini, ragazzi, adulti, anziani. E’ una scuola di vita, si imparano regole e come rispettarle. Si impara a stare con gli altri per condividere obiettivi, sfide, vittorie e sconfitte.
Lo Sport non deve essere solo la ricerca di azioni per il raggiungimento di prestazioni eccellenti, ma anche un incentivo all’aggregazione sociale ed integrazione.

E’ importante promuoverlo e per farlo, oltre a contributi economici pubblici e privati, in campo giovanile serve partecipazione volontaria ed esempi per i più giovani da seguire.

Un giorno un collega, chiamiamolo “GiBo”, che allena volontariamente e con grande passione un’Under “8” di Rugby, mi mostra qualche foto della squadra del Forlì e con grande gioia noto che tra gli sponsor ufficiali c’è un birrificio artigianale!

Non è cosa da tutti i giorni, sopratutto se la disciplina in oggetto è uno sport definito “minore”.
Non capirò mai come degli sport possano essere “classificati” solo in base alla visibilità mediatica o alla partecipazione.
Certo in Italia è più “facile” e proficuo investire in una squadra di Calcio, Basket o Pallavolo.
Diversamente in Inghilterra birra artigianale e rugby spesso vanno a braccetto, non solo nel dopo partita.
Io romanticamente ho pensato che a chi apre un birrificio artigianale non possono piacere le “strade facili” e le “cose normali” quindi Viva il Rugby!

Voglio essere sincero, a me il Rugby mi ha sempre un po’ attratto, ad esempio per le regole (trovatemi un altro sport nel quale per attaccare si passa all’indietro), ma sopratutto per i “riti”, la sportività in campo e la birra nelle Club house.
(Mi raccomando ragazzi… ai tornei di Beer Pong usate la More..i)

Ora voglio provare ad affascinare un po’ anche voi, così ho contattato Davide Balzani che ha calcato i campi di gioco prima da giocatore e poi da allenatore dal lontano 1979, oggi vicepresidente del Rugby Forlì nonché allenatore dell’Under 14.

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Partiamo con un po’ di storia… chi ha inventato il Rugby?

Il Rugby come sport nasce in Inghilterra negli anni 20 del XIX secolo. Si dice che sia stato lo studente William Webb Ellisper primo a prendere in mano la palla ed a corre con essa anziché calciarla ma in realtà ci fù una lunga evoluzione partendo da giochi di palla più antichi che via via vennero modificati e codificati fino a giungere alle tre versioni del calcio, del rugby a 15 e del rugby a 13. In ogni paese prevalse uno o più di queste versioni secondo la struttura sociale di essi. Il rugby a 15 rimase dilettantistico per oltre un secolo (fino al 1995), il rugby a 13 divenne ben presto professionistico quando cominciarono a giocare e ad affermarsi giocatori provenienti dalle classi popolari del Galles e dell’Inghilterra del Nord con un retroterra culturale ed economico ben diverso da quello dei giovani delle università esclusive dell’Inghilterra del sud, della Scozia e dell’Irlanda.

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Nel 1400 nasce il calcio storico fiorentino, nel 1871 in Inghilterra la Rugby Football Union… possiamo scherzando affermare che il copyright del rugby appartiene a noi?

No, direi proprio di no. Il calcio fiorentino nasce in un contesto storico e culturale completamente diverso da quello dell’Inghilterra del XIX secolo. Anche nel Regno Unito esistevano giochi con una palla più o meno ovale sin dal medio evo, ma il rugby come lo vediamo noi oggi nacque come sport di elite all’interno delle più prestigiose scuole ed università inglesi e venne immediatamente individuato dal sistema scolastico come un ottimo strumento per formare la classe dirigente che dovrà governare l’Impero. Per tale motivo venne “esportato” in tutti i paesi soggetti alla corona britannica e in molti di essi ancora oggi è lo sport dominante (Nuova Zelanda, Australia e Sud Africa).

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Quest’anno il Rugby Forlì compie quaranta anni. Ci parli di quando è iniziato tutto?

Nel 1979 Euro Camporesi, già ciclista agonista di ottimo livello, partendo dal nulla pensò di provare a importare a Forlì il rugby. Per questo si mise in contatto col Comitato ragionale della FIR che gli fornì qualche aiuto tecnico. Poi andò a fare un corso da allenatore e cominciò a cercare adepti in città. Ricordo che io lessi un annuncio sul Carlino e mi recai al campo del centro Studi di via Aldo Moro, sarà stato settembre del 1979, e da lì cominciai la mia esperienza rugbystica che dura tutt’oggi.
All’inizio fu veramente dura.
Ricordo che giocammo la prima partita a Cesena nel dicembre del 1979 e ci dovettero prestare persino le magliette. La prima partita con le maglie biancorosse la giocammo in febbraio del 1980 sul campo di via Aldo Moro dove ancora non avevamo montato i pali. Nel primo e nel secondo campionato praticamente collezionammo solo sconfitte, ma la crescita fu rapida. Già nel campionato 1984/1985 vincemmo il nostro girone e non riuscimmo ad essere promossi causa differenza punti nel play off giocato col Trieste. Nella stagione 1987/88 arrivò finalmente la promozione in C1, categoria in cui giochiamo anche attualmente. Poi la storia è continuata con alti e bassi ma senza mai interrompersi. Il punto più basso fu raggiunto agli inizi degli anni 2000 quando a seguito di un cambio generazionale per due campionati formammo un’unica squadra con Cesena, alle prese anche loro coi nostri stessi problemi, ma dal 2005 la società è stata “rifondata”, molti ex giocatori soni diventati dirigenti e allenatori e siamo arrivati ora a contare oltre 150 giocatori e ad essere presenti in tutte le categorie dall’Under 6 alla Senior.

Lo sport dovrebbe sempre insegnare dei valori, il rispetto per l’avversario, la capacità di soffrire, allenare alla vita. In Italia per il Rugby ed altre discipline attorno alle quali gravitano meno interessi commerciali, è un compito più semplice?

E’ difficile fare confronti. Tutti gli sport si basano su valori nobili e positivi, poi dipende dalle persone e dagli interessi collegati creare ambienti più o meno positivi. Di certo nella nostra realtà il rugby è uno sport marginale e soprattutto a livello di ragazzini il lato competitivo è secondario. Si cerca di privilegiare i concetti di appartenenza al gruppo, di sostegno al compagno e di inclusione di tutti. Non esiste che un bambino passi la domenica in panchina, si gioca tutti.

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Il Rugby ha iniziato ad ottenere un’importanza mediatica dal 1987, anno dei primi mondiali di Rugby in Australia/Nuova Zelanda. Come mai così tardi?

Attenzione! Non generalizziamo. A fine ottocento in Nuova Zelanda, Inghilterra e Australia si giocavano partite a cui assistevano oltre 50.000 persone mentre in Italia ancora lo sport era un fenomeno appena nato. Di sicuro la nascita della Coppa del Mondo e la sua diffusione tramite le TV ha contribuito moltissimo alla diffusione nei paesi diciamo non a vocazione rugbystica. Negli anni 80 in Italia era pressochè impossibile vedere in TV del rugby, ora è più facile (anche se ormai è tutto a pagamento). Ora il Mondiale è un evento planetario, ma l’Italia è totalmente ai margini. Da noi l’interesse per il rugby è minimo.

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Il Rugby a 15 non è ancora una disciplina Olimpica, quello a 7 lo è diventato solo dal 2016. Uno sport con origini così antiche… non riesco a capire. Mi spieghi come mai?

Giocare una partita di rugby a 15 di alto livello non è uno scherzo. Fisicamente è estremamente logorante. Non è come a basket o pallavolo dove non hai scontri fisici e puoi giocare tutti i giorni e in 10 giorni finisci il torneo. I mondiali infatti durano più di un mese per poter avere intervalli anche di una settimana fra una partita e l’altra, soprattutto nelle fasi finali, per consentire agli atleti di avere i giusti tempi di recupero. Il rugby a 7 è tutto un altro sport. Partite di 14 minuti, tante corse e meno scontri. In pochi giorni si può terminare un torneo anche con molte squadre. Nel contesto di un olimpiade è impossibile collocare un torneo che duri oltre un mese dovendo includere numerose squadre di tutti i continenti. Molto più facile inserire il rugby a 7 che è anche meno selettivo e più accessibile a nazioni non tradizionalmente rugbystiche.

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Il 6 Nazioni per l’Italia del Rugby è quasi sempre stato sinonimo di cucchiaio di legno. Quando potremo ambire a qualcosa di più dell’ultimo o penultimo posto?

Non vedo nel breve alcuna possibilità di aspirare a piazzamenti che vadano oltre. Non produciamo giocatori di qualità perché la base ha numeri ridotti e i ragazzi fisicamente dotati di solito in Italia fanno altro. In più la Federazione non ha capacità organizzative o di programmazioni tali da far prevedere una inversione di tendenza.

Se poi ci mettiamo che la nazionale non vince, è un cane che si morde la coda e non ne usciamo.

 

Un momento del Rugby che non ti dimenticherai mai?

Sono più di uno. L’abbraccio con mia moglie al termine della finale del campionato 1987/88 quando sul campo di casa battemmo il Prato e fummo promossi per la prima volta in C1, poi le partite giocate con mio figlio. Essere in campo assieme al proprio figlio con la maglia biancorossa, se pur in partite amichevoli, non ha prezzo e infine un altro abbraccio, quello con il tallonatore del Collecchio, mio avversario diretto, al termine di una delle partite più dure che io ricordi in cui non ci eravamo risparmiati nulla. Per la cronaca vincemmo noi e arrivammo primi in campionato proprio davanti al Collecchio.

 

Un personaggio che lo rappresenta al 100%?

In Italia è difficile trovare un personaggio carismatico che possa avere rappresentato questo sport. Forse Massimo Giovannelli, capitano della nazionale che ottenne il diritto ad entrare nel 6 Nazioni. Giocatore nato e cresciuto a Noceto (PR) in epoca di dilettantismo puro divenne capitano della Nazionale in virtù del suo coraggio e della capacità di guidare i compagni prima con l’esempio che con le parole.In paesi come la Nuova Zelanda dove il rugby è religione, gli esempi non mancano, ma sono totalmente ignoti nel nostro paese.

 

Un giocatore di Rugby ha affermato “certe volte l’arbitro fischia e non so il perché, so solo che devo stare zitto e andare via…”, è poesia della sportività e sacrificio?

Effettivamente il rapporto con l’arbitro nel nostro sport è particolare. Diciamo di amore e odio. Quando stai in campo e ti accorgi che l’arbitro ne capisce veramente tanto di questo gioco, parla coi giocatori prevenendo i falli, non assume atteggiamento arroganti o da protagonista è fantastico. Nel rugby più un arbitro è bravo e meno usa il fischietto. Certo è che vedere l’arbitro dopo la partita andare in club house e parlare liberamente con allenatori e giocatori con una birretta in mano fa molto piacere. Da allenatore dico sempre ai miei ragazzi:”ricordatevi che l’arbitro è li per lo stesso motivo per cui ci siete voi: giocare e divertirsi. Come voi a volte gioca bene a volte meno. Ma ricordate che senza di lui voi non potreste giocare.”

 

La Romagna non è una zona dove c’è una tradizione sportiva della palla ovale, ma negli ultimi anni si sta cercando di promuovere l’amore per questo sport investendo nel Mini Rugby. Come sta crescendo la nuova generazione rugbistica?

In Romagna le prime squadre di rugby sono apparse negli anni 70 del secolo scorso (Cesena, Imola e Forlì) per cui possiamo a mio avviso cominciare a parlare di un fenomeno di lunga durata anche se per molto tempo non ci sono stati grossi incrementi di praticanti. Allestire settori giovanili era difficilissimo, nessuno voleva giocare a uno sport considerato violento. Dopo alti e bassi e grazie sia al traino della Nazionale dei primi anni 2000 che dell’entusiasmo di tecnici e dirigenti locali ora il rugby è più diffuso con società anche a Rimini, Ravenna e Faenza, ma ovunque la situazione non è facile. A Forlì è da anni che investiamo le nostre scarsissime risorse nell’attività del Minirugby (dai 6 ai 12/13 anni) perché partendo da quelle età si possono formare giocatori di qualità. Altro motivo che ha spinto tutte le società ad iniziare a reclutare ad età basse è che tutte le discipline sportive lo fanno e quindi la competizione per “accaparrarsi” ragazzi è diventata fortissima. E’ nostro motivo di orgoglio poter dire che tutti, e dico tutti, i giocatori della nostra squadra maggiore sono stati formati in società sin dalle categorie del Mini. Abbiamo alcuni ragazzi poco più che ventenni che possono vantarsi di vestire la maglia biancorossa da più di 10 anni.

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Sfatiamo un luogo comune cioè quello che il Rugby sia una disciplina per soli uomini…

Oggi esiste anche un movimento femminile, peraltro con numeri ridottissimi che stenta a decollare per assenza di settori giovanili, ma che ottiene risultati sorprendenti a livello europeo. Non conosco l’ambiente femminile pur avendo a Forlì una realtà di tal genere, per cui non sono in grado di esprimere giudizi. Penso comunque che chiunque abbia il diritto di praticare lo sport che preferisce per cui nessuna preclusione alle ragazze!

 

Davide ci facciamo una birretta artigianale post intervista?

Una rossa piccola, grazie!

 

Il mondo della Birra Artigianale è passione e duro lavoro, vi ricorda forse qualcosa?
Io abito in un piccolo paese, Forlimpopoli, toccato dall’onda del Minirugby e dove da un anno, dopo tanti sacrifici, è nata una piccola società sportiva.
Bisogna essere fieri dell’impegno e lo sforzo di queste persone che insegnano ai ragazzini la cultura dello sport.
Invito tutti a sostenere ed investire in questo a prescindere dalla disciplina, ma se vi piace il rugby…

Ora abbiamo finito! E’ scoccato l’80°, l’arbitro ha fischiato la fine ed è arrivato il momento di uscire dal campo con onore ed un applauso per l’avversario.

“A Rugby si gioca con le mani e coi piedi, ma in particolare con la testa e con il cuore.”
(Diego Dominguez)

 

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Piero Garoia
Info autore

Piero Garoia

Sono nato nel lontano millenovecentosess… il secolo scorso, a Forlimpopoli, paese natale di Pellegrino Artusi padre della cucina italiana.
Appassionato di musica, cinema, grafica e amante della fotografia.
La passione per la Birra Artigianale nasce tra gli scaffali di una libreria sfogliando un piccolo manuale per fare la birra in casa.
I disastrosi tentativi di produrla mi hanno fatto capire che diventare homebrewer non era proprio la mia strada.
Ho scelto allora di gustare la birra con gli amici, tutti appassionati, “credenti” che artigianale sia significato di unicità e qualità.
Non sono un docente, nemmeno un esperto, ma ho un obiettivo, mantenere vivo un piccolo mondo romantico dove la cultura della birra sia sinonimo di valori, socializzazione e condivisione di esperienze.
Coltivo le mie conoscenze partecipando a eventi, degustazioni, incontri e collaboro con l’Unper100 un’associazione di homebrewer forlivesi.
Mi affascina il passato delle persone, ascoltare le loro storie e capire come vivono le loro passioni.
Gestisco anche un mio blog semiserio www.etilio.it e mi piace pensare che questo possa contribuire a “convertire” più persone possibili al pensiero che “artigianale è meglio”.
Ho ancora tanti sogni nel cassetto e altrettanta voglia di concretizzarli.
Far parte del “Giornale della Birra” cosa significa? Vuol dire avere l’opportunità di comunicare a molte più persone quello che penso e mi appassiona.