Numero 03/2017
21 Gennaio 2017
I Contrabbandieri di Birra: Capitolo 15
Dodici ettari…
Una discreta quantità di terra da coltivare.
Era quella la dimensione della proprietà della famiglia di Giuseppe.
Nonostante fosse suddiviso in diversi appezzamenti, la loro somma si poteva considerare un bel po’ di terra.
In vero i nobili latifondisti ne possedevano centinaia, di ettari, ma se si pensava che la famiglia del giovane era da secoli lavoratrice delle stesse terre, e che ne aveva sempre ricavato solamente lo stretto necessario alla mera sopravvivenza, consegnando tutto il surplus ai Nobili padroni… beh, passare da essere quasi degli schiavi a padroni di centoventimila metri quadri di terreno, non era male!
Ed in quel momento, in quegli anni, il Regime che aveva donato loro la dignità di una vita libera, di un possedimento, di una rendita superiore rispetto al tozzo di pane che avevano sempre avuto, gli stava levando nuovamente tutto…
Tutto quanto!
Certo, la gratitudine porta con se la fedeltà…
Ma è la stessa fedeltà che dimostra un cane: se amato, ben nutrito e coccolato, esso darà la sua vita per proteggere quella del padrone.
Lo stesso animale, quando bistrattato, picchiato ed affamato, arriva al punto di rottura, alla determinazione che la fiducia concessa al padrone era mal riposta… ed allora, non esiterà a mordere la mano della persona che lo ha offeso ed affamato.
Lo stesso vale per gli esseri umani.
E la famiglia di Giuseppe non era un’eccezione.
Lo Stato, il Regime, il Duce stesso li avevano traditi ed allora, non potendo loro “mordere” la mano inarrivabile di Mussolini, perpetravano il tradimento.
Mera sopravvivenza.
Nulla di più.
I giorni passarono.
Otto, per la precisione, dalla semina del grano.
Era notte.
Padre, madre e figli camminavano nella notte scarsamente illuminata dalla luna appena crescente.
L’aria fresca, ancora simile a quella di fine estate, nonostante le temperature iniziassero ad essere quelle di inizio autunno.
Sulle spalle dei tre uomini, pesanti sacchi di iuta contenenti piccoli semi che ad ogni passo scricchiolavano sommessamente sulle loro schiene.
Un piacevole massaggio, se non fosse stato per il peso di quelle granaglie: cinquanta chilogrammi a testa.
Chilometri di marcia con il gravame scricchiolante per giungere, infine, nei propri campi, ove iniziava la parte faticosa del lavoro.
Passavano le notti a piantare a mano, nel terreno fresco di aratura e semina, i piccoli granelli di orzo.
Era un lavoro meticoloso, soprattutto se svolto nella semi-oscurità.
Piegati al suolo, una mano piena di semi, con l’indice della mano libera perforavano la terra friabile ed umida quel tanto che bastava per seminare un chicco. Ricoprivano poi con cura e passavano oltre.
Un seme di orzo a fianco di ogni germoglio di grano.
Lungo.
Faticoso.
Silenzioso.
Estenuante.
La prima notte scivolò via rapidamente.
Verso le quattro, stimando l’ora in base alla posizione dello spicchio di luna nel cielo, i quattro si ritirarono.
Lo stesso numero di chilometri che avevano percorso all’andata andava percorso al ritorno.
I sacchi semivuoti, il buio sempre come compagno di viaggio.
Non potevano farsi notare.
Non potevano fare quel lavoro durante il giorno.
Certo, sarebbe stato più semplice, senza alcun dubbio!
Ma qualche vicino invidioso dell’idea di Giuseppe, quella di produrre birra di contrabbando, oppure qualche zelante servitore del Regime avrebbe potuto denunciarli ai carabinieri.
Ed allora sarebbero stati guai!
Dovevano lavorare di giorno, come sempre, lasciando la semina di orzo alla notte.
La settimana si preannunciava intensa.
Poche ore di sonno e molte, moltissime ore di lavoro.
Quella notte era andata bene.
Avevano seminato, tra centro dei campi ed interlinee non vicine alla strada, quasi tre ettari di terreno.
Se il ritmo fosse rimasto così sostenuto anche le notti successive, tenuto conto delle distanze chilometriche tra i diversi appezzamenti di terreno, avrebbero completato quella faticosissima fase del loro lavoro in tre, quattro notti.
Poi la natura e la fortuna avrebbero fatto il resto.
Anche la seconda notte scivolò rapida.
Rapida e nell’anonimato.
Nessuno sapeva che cosa stessero facendo per i campi nottetempo.
Perfetto!
La terza notte, con la luna che era divenuta un po’ più grande, la visibilità era maggiore.
“Ottimo, s lavorerà più velocemente!” pensò Pietro, il quale aveva un disperato bisogno di recuperare le ore di sonno perse!
Iniziarono a lavorare di buona lena.
Tutto si stava svolgendo molto più rapidamente del previsto.
Il più giovane della famiglia, stanco e raffreddato dalla pungente aria della tersa notte di fine estate, starnutì.
Lo fece sommessamente, tentando di trattenere il rumore, lo sbuffo.
Stavano lavorando vicino al cascinale dei Bertola, famiglia di agricoltori, amici di vecchia data.
Tutti si voltarono verso di lui.
Gli occhi lacrimanti, Pietro fece un cenno che era un misto di segnali: comunicò di stare bene ed al contempo chiese scusa per il rumore provocato, anche se del tutto involontario.
Levò la mano dal viso ed emise un profondo respiro.
Il pizzicore al naso, soffocato maldestramente un attimo prima, si ripresentò prepotente.
Questa volta il giovane non potè trattenersi.
Starnutì rumorosamente, ancora ed ancora.
Sette starnuti.
Sette rumori molesti nel cuore della notte.
Un attimo di silenzio.
Il terrore negli occhi dei quattro familiari impietriti, in attesa degli eventi.
Silenzio.
Un silenzio tombale, quasi surreale…
Nessuno li aveva sentiti?
Erano stati così fortunati?
I quattro si rilassarono un poco, nessuno sembrava essersi accorto di nulla…
Nessun uomo, in vero… ma il pastore tedesco dei Bertola… Sì!
L’animale iniziò ad abbaiare e a ringhiare rumorosamente, solo una cancellata di ferro ed una decina di metri separavano l’animale, che ormai li aveva scovati e puntati, dai quattro.
«Merda! Dobbiamo fuggire!» ordinò Giuseppe.
«Ma c’è un recinto di ferro tra noi e il cane, fratellone!»
«Non è il cane che mi preoccupa…»
«allora cosa?»
Giuseppe indicò la luce che filtrava dalle piccole feritoie nelle tapparelle di legno di una finestrella al primo piano della cascina:
«Luciano si è svegliato… via!»
«Cazzo! Quello scende col fucile da caccia!» si convinse Pietro.
«Via! Presto!»
I quattro fuggirono, i sacchi ancora pieni a metà sulle spalle.
Tale Luciano Bertola, panciuto signore di circa cinquant’anni, uscì di casa in canottiera e mutande, con il fucile in mano.
Bestemmiò ed inveì contro ai quattro che si allontanavano di gran carriera, sparando un aria per spaventarli ulteriormente.
Era andata male… quel campo non avrebbero più potuto seminarlo di notte!