Numero 43/2023

24 Ottobre 2023

Birrificio degli Arimanni: birre dal cuore trentino

Birrificio degli Arimanni: birre dal cuore trentino

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Il birrificio degli Arimanni è un piccolo centro produttivo nel cuore della Valsugana,  in Trentino. Nato come beerfirm nel 2018, si è messo in proprio alla fine del 2020 – inizi 2021. Il primo a credere in questo progetto è stato Davide Corona, che attualmente si occupa di tenere i contatti amministrativi e di pianificare tutti gli aspetti produttivi. Alla fine del 2022, è stato affiancato da Gabriele Chemelli, il birraio, e insieme hanno un po’ rivisto le ricette e sistemato un po’ la produzione, cercando di implementare il progetto che è alla base del loro lavoro: rendere le birre fortemente legate al territorio, tanto da puntare alla loro realizzazione con prodotti 100% made in Trentino. “Adesso è partita la fase espansionistica – ci racconta Gabriele – grazie ad Alessandro Sandona che si occupa di marketing e gestione di nuovi clienti. Stiamo pian, piano iniziando a lavorare sulla comunicazione, anche se al momento, con la crescita che abbiamo avuto, non siamo ancora pronti per dedicarci ad una promozione tramite canali social, ma arriverà anche questo. Ci stiamo, in tanto, muovendo per implementare la produzione con ulteriori 2 nuovi fermentatori che andranno a supportare gli 8 già presenti per arrivare ad una produzione di 72 ettolitri di birra. Tutto in isobarico.”

Davide ci spiega la loro scelta: “Certo all’inizio l’isobarico non è facile da gestire, ma se mi chiedessero di tornare indietro ad un confezionamento classico con rifermentazione lasciando i problemi, scarti e quant’altro dell’isobarico, la mia risposta sarebbe no. Semplicemente perché si ha un prodotto qualitativamente migliore che è già pronto da bere e viene meno maneggiato.” Insomma, il cambio di rotta della lavorazione delle birre, non è stato pensato solamente nell’ottica di migliorare il lavoro del birraio, ma anche, e soprattutto, nell’ottica di migliorare l’esperienza del consumatore finale.

 

Entriamo nel dettaglio della produzione con Gabriele che ci mostra l’imbottigliatrice a ricamo. “Anche la scelta che abbiamo fatto in merito a questa fase del ciclo produttivo è stata studiata per mantenere alta la qualità della birra. Infatti, questo modello di imbottigliatrice è una delle migliori, nonostante abbia solo due teste che ne limitano la velocità, fa comunque un ottimo lavoro visto che ha anche la pompa del vuoto, cosa che poche imbottigliatrici hanno. Imbottiglia dal basso tramite un’asta che, una volta chiusa la bottiglia e dopo aver fatto il vuoto, scende, spara anidride carbonica appena sopra l’entrata della birra, riempie, fa la schiuma e tappa sulla schiuma. In questo modo siamo riusciti a diminuire la quantità di fondo presente nella bottiglia, guadagnando non solo un aspetto finale migliore della birra, ma anche una maggiore durata del prodotto nel tempo. E che questi cambiamenti inizino a fare la differenza lo capiamo dalle risposte dei consumatori finali. Ad esempio, parlando con alcuni clienti, mi hanno chiesto se avevamo cambiato la ricetta della Weizen in questo anno, in verità, avevamo sempre la stessa ricetta da tre anni, ma avendo preso confidenza con l’imbottigliatrice, anche la birra sembra migliorata nel gusto.”

“Sempre nell’ottica di una particolare attenzione al prodotto finale, a come si presenta e a come mantenerlo al meglio – puntualizza Davide – stiamo valutando di passare il prossimo anno dal polykeg all’acciaio almeno per una parte della produzione in modo anche da migliorare il rapporto col venditore finale. Niente lattine per noi. Il vetro ha il suo fascino, almeno per il momento. Anche perché  la mezza verità che raccontano agli utenti finali che è meglio la lattina del vetro, in quanto la luce solare non riesce a passare il contenitore e di conseguenza non intacca il prodotto, in realtà non è vera, i due contenitori sono alla pari. I vetri scuri, marroni opacizzati non hanno niente da invidiare alle lattine. Chi invece si muove sui due estremi, dalla bottiglia dal vetro scurissimo, dove non si vede neanche il prodotto all’interno, a quelli che utilizzano bottiglie verdi, li è una questione di estetica e di marketing. Passando da una bottiglia da 180 gr totalmente trasparente, che non protegge il liquido dall’ultravioletto, ad una da 220 gr, aumenta lo spessore e dunque aumenta la qualità del vetro e il prodotto contenuto sarà chiaramente più al riparo dalla luce. Ciò che costa è il fatto di renderle opache. Infatti meno costa la bottiglia, meno materiale usano per realizzarla e più è trasparente e più luce filtra all’interno, danneggiando il prodotto.”- Sorride e butta lì una mezza riflessione, basata sulla conoscenza del suo territorio fortemente legato all’enologia: “Quando anche il vino sarà messo in lattina, allora vorrà dire che ci sarà davvero un cambiamento nella produzione. Ma, insomma, la lattina esiste da 150 anni e oltre, non è una invenzione recente, se il vino è ancora in bottiglia ci sarà un motivo. Anche se qualche cantina per le linee estere già sta producendo lattine, ma questa è un’altra storia. Al momento, per chi lavora bene, si può dire che una lattina o un vetro opacizzato garantiscono un prodotto ben conservato.”

Adesso lasciamo spazio alle birre. Ce le racconta nel dettaglio il birraio, Gabriele.

 

“Al momento riusciamo a tirare fuori 6 ettolitri per cotta. Nei fermentatori ora abbiamo una Weizen, una Sassion Ipa, una Pale Ale e una Helles. Quasi tutte le birre che produciamo, manca solo la Porter. La linea produttiva, infatti, è composta da 4 birre classiche, la Biga (Weizen), La Garba (Pale Ale), la Walda (Vienna), la Werra (Brown Porter), più 2 birre stagionali, una di Natale e la Fara Summer Ale (Session IPA), una fresh hope. Abbiamo già provato nuove ricette in piccolo, ma non vogliamo fare il passo più lungo della gamba ed arrivare ad avere troppe birre rispetto alla capacità produttiva, al momento, ancora piccola, quindi per adesso facciamo dei test che, magari più avanti diventeranno nuove etichette.

La prima nata è stata La Garba, l’ambrata, quella che più ci rappresenta. Volevamo una birra facile da bere, ma che fosse, allo stesso tempo, rappresentativa di quello che volevamo fare, che si discostasse un po’ dalla solita birra chiara ed è arrivata lei: equilibrata ed ambrata. Di conseguenza abbiamo realizzato il suo opposto, la birra scura, la Brown Porter, come provocazione alle birre più alcoliche e amare. È venuta una birra più beverina, maltata al punto giusto, con i sentori di cioccolato e caffè e cereali tostati ben presenti, ma con una gradazione alcolica medio –bassa, tanto quanto una birra chiara, che di conseguenza è venuta fuori come terza birra della linea, la Summer Ale. È diventata eccellenza del territorio in quanto eravamo pronti con le nostre materie prime, orzo e luppolo,quest’ultimo utilizzato a freddo durante il processo produttivo. Una birra fresca, leggera con note agrumate persistenti, ma leggermente smorzate dall’amaro che rimane sul finale. Poi il mercato ci ha chiesto la Weizen, classica birra di frumento con sentori speziati e fruttati. Dopo di che è nata la birra chiara alla tedesca, la Vienna, che ci serviva per fare volumi, una birra che ti aspetti di bere, chiara, con sentori fruttati – floreali e note di miele, morbida, ma con  il suo carattere. Per finire abbiamo realizzato la birra di Natale. Ed ecco le sei birre.

Le abbiamo fatte perché ci sentivamo in dovere di farle, in quanto ogni birra rappresenta un luogo particolare della Valsugana. Si nota anche dal packaging, abbiamo messo il territorio in etichetta, sottolineando l’importanza di questi punti strategici che compaiono sulle bottiglie, strategici come le nostre birre, ognuna ha un’importanza diversa, ma fondamentale, tutto a stretto contatto con la terra che abitiamo e viviamo ogni giorno. È il principio sul quale si base il nostro lavoro, ma anche una forma di giustificazione del prodotto verso il cliente. Produciamo  infatti, una varietà di birra che sia capibile da tutti, che il cliente bevendola ritrovi le note principali alle quali è abituato, ma con una piccolo tocco in più.  Ad esempio, come la nostra helles, l’abbiamo chiamata Vienna perché ha un po’ più di carattere, ma è molto riconoscibile, che tutti ti dicono “ok, è una birra chiara e beverina”. Oppure la Session IPA: c’è l’amaro, il profumo, però ha un grado alcolico che è nelle corde di tutti. Vuoi l’ambrata? Ce l’abbiamo, ma non è esuberante, è piacevole in bocca, non ha una maltatura prepotente all’assaggio. Queste qua sono birre che devono indurre la sorsata successiva. Una costante di tutte quante è che non troverai mai una prepotenza del luppolo o dell’amaro o dell’alcool, un erbaceo invadente, sono abbastanza uniformi nell’eleganza, ognuna con la sua caratteristica, più o meno luppolata, più o meno maltata, però questa qua è la costante che vogliamo nella struttura del nostro prodotto. Mettersi a fare birre che non sono conosciute sul mercato visto che noi non siamo ancora molto conosciuti è una lama a doppio taglio.”

Un’ultima analisi la dedichiamo all’utilizzo delle materie prime, visto che il birrificio vorrebbe arrivare a produrre solamente con materie prime 100% prodotte sul territorio trentino, coltivate con passione e attenzione su tutta la filiera.

 

“Per il discorso materia prima, ci affidiamo al momento ai nostri fornitori, ma in piccola parte, ed è una fetta destinata ad aumentare, abbiamo una piccola produzione interna di malto e luppolo con l’obiettivo di arrivare a dare veramente voce al territorio, di raccontarlo con le nostre birre. I campi di orzo sono in Valsugana, io ho un po’ di orzo e un luppoleto e abbiamo attinto anche da altri partner che hanno campi e luppoleti sempre in Trentino. – afferma orgoglioso Gabriele – Bisognerà trovare un giusto compromesso tra avere il proprio orzo e farlo maltare ad un giusto prezzo, perché va bene anche pagarlo di più, se punto su un prodotto del territorio, ma bisogna stare attenti che non diventi un’operazione insostenibile che vada poi a ricadere su tutta la produzione. Bisogna quindi riuscire a trovare la varietà di orzo che abbia la giusta produzione con la giusta tecnica colturale ed il maltificio che riesca a farti un prezzo abbordabile con tempistiche di consegna del malto adeguate e, soprattutto, che ti garantisca che torni in dietro il tuo orzo. Invece a volte, ti torna una parte di orzo, che è sempre italiano, però non è la tua produzione esclusiva.

Per adesso riusciamo a realizzare solamente una parte di questo progetto produttivo. Lo scorso anno, la Fara, la nostra Summer Ale, è stata fatta con un 30% di malto d’orzo di nostra produzione e il 100% di luppolo. Quest’anno con il nuovo raccolto ed, in vista di un aumento produttivo, abbiamo calato i quantitativi di luppolo ad un’85% e il 20% del malto. Puntiamo ad arrivare ad un 100% per entrambi creando la nostra filiera. Partire dalla materia prima, sapere come la vuoi, provare a coltivare diverse qualità, capire come si comportano e piano, piano arrivare al prodotto finito. Anche perché la cosa più difficile è la trasformazione di orzo e luppolo in malto e pellet. Sono i punti critici, ma siamo molto sensibili su questa tema e stiamo studiando il modo migliore per attuarlo e renderlo sostenibile in termini di mole di lavoro e di economicità.”

Non solo, anche la sostenibilità ambientale è un tema che sta molto a cuore al birrificio degli Arimanni. Tutto viene creato in un’ottica di valorizzazione del territorio che deve anche essere tutelato e salvaguardato, lontano da sprechi e sfruttamento ambientale. Come ci spiega Gabriele:

“Abbiamo un impianto a due tini, tirato quasi sempre al limite, come è giusto che sia. Recuperiamo l’acqua calda dallo scaldatore a doppia fase e la riutilizziamo per le cotte successive. Infatti al momento ci siamo concentrati su un’organizzazione delle settimane con confezionamento e lavaggi il primo giorno e poi produzione i giorni successivi, per avere sempre l’acqua calda e risparmiare energia nell’ottica di ridurre un po’ l’impatto ambientale, garantendoci anche una maggior comodità lavorativa nostra. Al momento nel primo tino facciamo ammostamento, bollitura e whirlpool e nell’altro solo filtro e già prevediamo di fare modifiche su questo impianto per renderlo ancora più efficiente.”

 

Ma queste birre così curate nel dettaglio e realizzate con un occhio di riguardo per il venditore ed il consumatore finale, dove vanno?

“Enoteche, ristoranti, alcuni locali, tante malghe, principalmente in Valsugana. – risponde Davide – Da quando abbiamo attuato la trasformazione strutturale non abbiamo mai partecipato ad eventi grossi per rilanciare la nostra nuova veste consolidata di birrificio. E quando eravamo beer firm non riuscivamo ad avere quella stabilità, nel passaggio produttivo da un birrificio all’altro, che volevamo e che ci aiutava ad avere quella spinta in più anche sulla produzione. Adesso è tutto cambiato. Ci stiamo piano, piano facendo conoscere. Quest’anno sta andando più che bene. Lo scorso anno abbiamo prodotto 150 ettolitri e quest’anno, solo nei primi sei mesi, abbiamo già prodotto 160 ettolitri e speriamo di raddoppiare almeno i numeri dello scorso anno.”

Birre quotidiane, dalla beva facile e che invogliano un altro sorso, non pretenziose, ma neanche scontate. Le birre si prestano a più pubblici, dall’intenditore che vuole scoprire nel dettaglio tutti i segreti del birraio, a chi cerca semplicemente il piacere di una birra artigianale prodotta con attenzione e maestria sulla materia prima selezionata. Insomma, le birre rispecchiano a pieno chi le produce. Un piccolo birrificio che punta a diventare grande, così come grande è l’importanza che ha il legame col territorio. Non a caso gli Arimanni, in Valsugana, erano proprio coloro a cui era affidata la cura dei luoghi: coltivavano i campi, ma in caso di necessità, imbracciavano le armi e difendevano ciò che avevano di più caro. Un po’ come Davide, Gabriele ed Alessandro che si preoccupano non solo di curare le materie prime, ma trovano anche la forza di imporsi sul mercato. Veri e propri Arimanni contemporanei.

 

 

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Maria Giulia Ruberto
Info autore

Maria Giulia Ruberto

La mia passione per la birra nasce esattamente due anni fa, quando per la prima volta mi sono cimentata nella spillatura dietro al bancone di un bar. Non so se si possa definire una vera e propria passione, ma so che quando sono lì a “creare” le mie birre, mi sento al posto giusto. Così ho deciso di chiudere in un cassetto i cinque anni investiti nel prendere la laurea in Comunicazione per seguire la mia nuova strada di barista. Da lì è stato un vortice, mi sono trasferita dalla Toscana al Trentino, ho seguito corsi formativi sulle birre e ho deciso di rispolverare la mia passione per la scrittura, chiaramente in ambito birrario. E da qui in poi: avanti a tutta birra!