Numero 27/2020
4 Luglio 2020
Heineken Italia, parte II: le aziende italiane appartenente al gruppo
Tratto da La birra nel mondo, Volume II, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Moretti/Udine
Il fondatore, Luigi Moretti I, nacque nel 1822 a Nespoledo di Lestizza, un paese di campagna in provincia di Udine, quando il Friuli faceva ancora parte dell’Impero asburgico. Per tradizione familiare, si occupava del commercio all’ingrosso di granaglie. Dopo l’acquisto di un vasto terreno a Udine, appena fuori Porta Venezia (la più orientale delle 12 inserite nelle trecentesche mura cittadine), estese il commercio a vino, olio e birra d’importazione.
Con la crescente richiesta di birra, Luigi, allora trentasettenne, decise di costruire uno stabilimento di produzione per porre fine alle complesse importazioni dall’Austria. Nel 1859 nasceva così la Fabbrica di Birra e Ghiaccio. Lo stabilimento aveva una capacità produttiva annua di 2500 ettolitri, il consumo previsto per Udine e provincia. Ma, intorno, una vasta area di terreno assicurava eventuali ampliamenti futuri. Mentre il posto offriva la possibilità di estrarre dal sottosuolo, tramite pozzi profondi fino a 100 metri, un’acqua a bassissimo tasso di durezza.
Nel 1860 vide la luce la prima birra; a fine anno, ne erano stati venduti 900 ettolitri. Da allora per la Moretti fu un’espansione continua, anche perché, rimasto vedovo ben presto della prima moglie, Luisa Moretti, Luigi sposò Anna Muratti, di facoltosa famiglia triestina, che contribuì decisamente al finanziamento del progressivo sviluppo dell’attività.
Poi arrivò il primo conflitto mondiale a bloccare la produzione. Come se non bastasse, nel 1916 morì prematuramente il figlio di Luigi I, ovvero Luigi II, che lasciò unica erede la figlia Luisa, ancora piccola.
Luisa fu pertanto affidata a un tutore; mentre dell’azienda, dal 1916 al 1933, si occupò Ugo Omet, valente giovane funzionario della Banca del Friuli che Luigi II aveva assunto pochi anni prima. E Ugo Omet, con le sue straordinarie doti manageriali, curò la ricostruzione e il riavvio della fabbrica, gravemente danneggiata dalla guerra, riuscì a triplicare le vendite e a impiegare i cospicui utili anche in importanti investimenti immobiliari. Insomma, la produzione, che nel 1920 aveva ripreso a pieno ritmo, l’anno successivo fiorò i 32 mila ettolitri. Nel 1922 la fontana di ghisa nella fabbrica fu sostituita da una pietra, a perenne ricordo dell’importanza dell’acqua per la produzione di birra.
Nel 1932 Luisa sposò Menelao (“Lao”) Menazzi, un dipendente dell’azienda, e la famiglia assunse il doppio cognome Menazzi Moretti. Nacquero due figlie e Luigi III.
Lao, inseritosi nell’azienda, ottenne dalla moglie una procura generale incondizionata. Sotto la sua guida la Fabbrica uscì indenne dalle traversie della seconda guerra mondiale; ma, seguendo una politica aziendale ben precisa, si limitò al rinnovamento di impianti e attrezzature dettato da esigenze produttive e dall’evoluzione tecnologica.
Solo nel 1968 Lao si decise a costruire un nuovo stabilimento di produzione a Popoli, in provincia di Pescara, peraltro ceduto successivamente alla Dreher.
E, proprio a causa di tutta una serie di errori e di valutazioni sbagliate, nel 1977 emersero le gravi e preoccupanti condizioni in cui versava l’azienda. A quel punto, Luisa prese il coraggio a due mani e affidò la conduzione dell’azienda al figlio, Luigi III; mentre al marito rimaneva la semplice carica di presidente onorario.
Ebbe così inizio un faticoso riassetto, che, nel 1992, ovvero un anno dopo che era stato raggiunto lo storico traguardo di un milione di ettolitri, si concluse con la chiusura della fabbrica di Udine e il trasferimento della produzione nella nuova sede di San Giorgio di Nogaro. Mentre Luigi andava prendendo coscienza, in condizioni sempre più critiche, dell’impossibilità di portare avanti l’azienda da solo.
Nel 1994 subentrò nel capitale sociale la canadese Labatt, a sua volta, rilevata l’anno successivo dalla Interbrew che, nel 1996, cedette la società friulana al gruppo Heineken Italia. Intanto, nel 1995, la Moretti aveva lanciato una birra rivoluzionaria, la San Souci Ice, ottenuta con una nuova tecnica messa a punto dalla Labatt nel 1993, l’Ice Brewing Process.
La Moretti continua a produrre birre di prestigio che hanno un notevole successo anche all’estero, e per più di una ragione. Quando infatti la maggior parte dei concorrenti passavano a cuor leggero alle lager chiare, essa rimase ferma sulle proprie posizioni mantenendo alta la qualità dei tipici prodotti in stile tedesco.
Come non è da sottovalutare la particolare attenzione per la pubblicità che l’azienda ebbe fin dall’inizio, sapendo sfruttare a meraviglia gli scarsi mezzi allora disponibili: cartelli realizzati con felice intuito nella scelta dei motivi e della loro presentazione grafica.
All’epoca della guerra in Libia, quando si cominciò a parlare di “moro”, la Moretti non tardò ad alterare questo termine facendo del plurale moretti i due negretti che illustravano il suo nome. Abbinò quindi i moretti al pugilato che si diffondeva a macchia d’olio e… il gioco era bell’e fatto. E l’attuale marchio? Questa, fu una geniale trovata di Lao Menazzi Moretti. Era il 1942, e Lao fu attratto da un cliente con un bel paio di baffi e il cappello di feltro che, seduto a un tavolino della trattoria Boschetti di Tricesimo, soffiava via la schiuma dal boccale di birra. Era insomma il bevitore che la Moretti cercava: un personaggio schietto, autentico.
Lao si avvicinò e gli chiese il permesso di fotografarlo nonché cosa volesse in cambio. “Mi dia da bere e a me basta”, fu la risposta dello sconosciuto. Solo dopo la guerra però comparve il cartellone pubblicitario, realizzato da Segala, noto pittore-cartellonista del tempo, su descrizione dei colori originali dell’abbigliamento fornita da Lao. Oggi questo personaggio, aggiornato con i tempi, viene sfruttato più che mai per pubblicizzare la birra Moretti; la televisione ne dà addirittura la versione animata. Però, quando il cartellone fu consegnato ai rivenditori, piovvero innumerevoli proteste in quanto molte persone credettero di riconoscersi nel bevitore raffiguato.
Ma Luigi Menazzi Moretti, ovvero Luigi III, in un libro sulle vicende della famiglia, e quindi dell’azienda, scritto in forma di intervista con Mario Blasoni, storico capocronista del quotidiano friulano Messaggero Veneto, ne dà una versione diversa. Dunque, agli inizi degli anni Cinquanta, in occasione di un viaggio in Germania, Lao s’imbatté in un’immagine pubblicitaria che rappresentava un tipico bevitore bavarese. Se ne procurò un esemplare e incaricò il professor Segala di rimaneggare l’immagine, apportando modifiche sostanziali: corporatura robusta, baffi spioventi al posto di quelli con sego alla Kaiser e cappello in testa, affinché assumesse la connotazione di un tipico friulano.
Altro motivo, non certo di minore importanza per il successo della Moretti, è avere alle spalle un gruppo che domina il mercato internazionale e non certo avaro quando c’è da perseguire uno scopo proficuo. Ecco quindi l’azienda friulana a sponsorizzare Inter, Juventus, Napoli; a istituire il famoso triangolare di calcio, Trofeo Birra Moretti, festeggiato nel 2006 tramite l’emissione di una lattina in numero limitato e serigrafata con il logo del decennale.
Attiva è la sua presenza anche nel mondo del cinema: vedi tra l’altro la 10a edizione del Milano Film Festival, uno dei più interessanti concorsi della giovane cinematografia internazionale. In occasione poi dello sponsorizzato campionato nazionale di pizza, esperti mastri birrai tengono magistralmente lezioni sulle tecniche di spillatura e sui migliori abbinamenti gastronomici pizza-birra. Per finire, patrocina il primo concorso letterario in Italia dedicato alla birra, “Penna & Birra”, per opere di narrativa e brevi racconti in qualche modo legati alla bevanda; è nuovo sostenitore e promotore del più antico e prestigioso premio giornalistico d’Italia, il “Premiolino”, istituito nel 1960. Il riconoscimento viene assegnato a sei giornalisti che nel corso dell’anno si siano distinti, oltre che per il proprio impegno professionale, per aver difeso l’indipendenza delle opinioni e la libertà di stampa da qualsiasi condizionamento.
Dreher/Trieste
L’idea di aprire una fabbrica di birra a Trieste, all’epoca sotto il dominio austriaco, venne a uno sconosciuto arrivato da Praga, un certo Voelckner. Pasquale Rivoltella, uomo di prestigio in città, costituì un Comitato Fondatore tra alcuni esponenti dell’economia locale. Riuscì invece a mettere insieme il cospicuo capitale di 700 mila fiorini necessario per la costruzione dello stabilimento il cav. Elio de Morpurgo, una personalità politica di rilievo che coinvolse la Banca Rotschild di Parigi, l’Azienda Assicuratrice, il barone De Lutteroth, l’armatore Bauer e il latifondista viennese Friedland.
Nel 1865 fu costituita la Prima Società per la Fabbrica di Birra in Trieste, mentre i lavori erano già cominciati da sei settimane. All’inizio dell’anno successivo venne inaugurato l’impianto, a distanza di qualche mese messa in commercio la prima birra e, subito dopo, aperta una birreria annessa alla fabbrica.
Purtroppo gli affari cominciarono pessimamente, e a nulla valse la sostituzione del mastro birraio Giust. Con un’impresa che andava a rotoli, Giuseppe de Morpurgo, rimasto peraltro nel frattempo unico proprietario, non poté non accettare nel 1869 l’offerta di 300 mila fiorini avanzata da Anton Dreher (l’inventore della birra di Vienna), da cui l’azienda prese la nuova denominazione.
Rimasta chiusa per diverso tempo, la fabbrica riprese l’attività nel 1870.
Furono pian piano eseguiti diversi lavori, fino all’installazione, nel 1877, di uno dei primi compressori Linde per la creazione del freddo e, tra il 1888 e il 1890, all’utilizzo dell’elettricità.
Anche questa volta però, nonostante il prestigio del nome e l’impulso apportato dal nuovo proprietario, il mercato deluse in buona parte le aspettative. Contemporaneamente, le altre fabbriche del gruppo Dreher cominciavano ad accusare una crisi paurosa. Nel 1905 si cercò di correre ai ripari tramite la concentrazione tecnica e finanziaria di tutte le aziende creando una società unica, la Anton Dreher Aktiengesellschaft.
Con l’adeguamento degli impianti, il gruppo Dreher qualche risultato, lo raggiunse; troppo poco però. Nel 1913 avvenne la fusione con due gruppi austriaci e nacque la Vereinigte Brauereien (“Birrerie Riunite”): presidente, Anton Dreher; vicepresidenti, gli esponenti delle altre due aziende, Viktor Mautner von Markhof e Georg Meichl (la moglie di Dreher proveniva peraltro dalla famiglia di quest’ultimo).
La nuova società prometteva bene: in un anno produsse 1 milione 250 mila ettolitri di cui 120 mila a Trieste. Poi arrivò la guerra; finita la quale, la Vereinigte Brauereien venne a trovarsi in una situazione finanziaria spaventosa. Nel 1917 era morto in guerra il figlio di Anton Dreher che aveva lo stesso nome. Nel 1921, con la morte sia di Anton che di Oscar Anton Dreher, si estinse la famiglia.
L’azienda fu venduta dai superstiti a un consorzio di banche viennesi dalle quali, nel 1928, venne rilevata la fabbrica di Trieste a opera del gruppo italiano Luciani.
Riportati faticosamente all’efficienza gli impianti che per circa 15 anni erano rimasti nel più assoluto abbandono, la Dreher si stava riprendendo molto bene, quando le piombò sul capo la tegola del proibizionismo. Solo nel 1936 poté finalmente riprendere fiato, acquisendo perfino un buon mercato nell’Africa orientale. Ma arrivò presto il secondo conflitto mondiale, e la città di Trieste dovette attendere la restituzione all’Italia della “Zona A” perché ritrovassero pace la sua vita e l’economia.
La crescita produttiva dal 1960 al 1964 rese necessaria una nuova ristrutturazione della fabbrica. Nel 1974 però la Dreher passò sotto il controllo della Heineken e della Whitbread. Quattro anni dopo ne era unico proprietario il gruppo olandese; e lo stabilimento venne, prima, chiuso e, poi, abbattuto.
Nel 2001, a opera dell’Associazione Birrofila Triestina, fondata da appassionati e collezionisti, nacque il Museo Dreher, uno spazio dedicato alla raccolta di centinaia di oggetti e testimonianze della famosa fabbrica che un tempo sorgeva a Trieste. In particolare, si conserva la lettera che nel 1945 la Dreher inviò all’Alto Comando Tedesco con la richiesta ufficiale di pagamento del saldo di 43 mila lire che la Wehrmacht (in tedesco, “forza di difesa”, denominazione dell’insieme delle forze armate tedesche dal 1935 al 1945) aveva in sospeso con il birrificio.
Per il buon rapporto qualità-prezzo la Dreher si rivolge a un target molto ampio, per cui da diversi anni il suo marchio è sostenuto da divertenti spot, da una campagna stampa e affissioni e da serie di eventi. La produzione avviene, oltre che in Italia, sotto il controllo della Heineken Italia, anche in Ungheria, presso la Dreher Sörgyárak Zrt.
Birra Aosta/Aosta
Nel 1837 nacque ad Aosta, con il nome di Brasserie Zimmermann, la seconda storica birreria italiana. Fu opera di Anton Zimmermann (nato a Gressoney-Saint-Jean nel 1803), dopo aver completato in Francia e in Germania gli studi di maître brasseur. Fu lui infatti a importare nel Regno di Sardegna il sistema bavarese della bassa fermentazione.
La Zimmermann, esempio di efficienza e modernità, incontrò subito il favore degli abitanti della Valle d’Aosta e dei turisti che arrivavano sempre più numerosi, non solo per le bellezze naturali della regione, soprattutto nel crescendo delle competizioni alpinistiche nazionali e internazionali.
Alla morte di Anton Zimmermann, avvenuta nel 1873, gli succedette il nipote Antonio Thedy, che aveva studiato l’arte di braumeister nella celebre scuola di Augusta. E la Brasserie Zimmermann prese la denominazione di Birra Graf Antonio Thedy.
Antonio Thedy non rimase inerte dinanzi all’aumentare dei volumi di produzione e all’evolversi delle tecniche birrarie. Apportò quindi tutte le modifiche necessarie, strutturali e funzionali. Nel 1892, secondo la consuetudine del tempo, aprì, attigua alla fabbrica, la Birreria Zimmermann per la mescita. A fine secolo cominciò anche a diversificare la produzione: alla münchner scura affiancò la pilsner chiara. Sicché all’inizio del Novecento la Brasserie Zimmermann si presentava come un’industria moderna e nazionale di grande prestigio.
Nel 1915 la direzione passò nelle mani della famiglia Vincent, e l’azienda divenne Birra Aosta di Matilde Vincent e Co.
Fortunatamente la guerra non incise negativamente sugli affari della birreria che, sotto la nuova denominazione, continuò a prosperare negli anni successivi. Addirittura, nel 1924, fu acquistata una piccola centrale elettrica.
Nel 1925 ad Antonio Thedy subentrò il cognato Corrado Vincent. Nello stesso anno la fabbrica venne danneggiata da un incendio, e fu l’occasione per costruire una nuova officina meccanica e una falegnameria, dove, oltre alla manutenzione delle botti in legno, venivano costruite le cassette per il trasporto delle bottiglie di birra. Venne anche installato il primo compressore per rinnovare l’impianto di raffreddamento fino ad allora costituito da tubi a salamoia; il parco mezzi, costituito da carri trainati da cavalli, fu sostituito con moderni autocarri; vennero creati depositi a Torino, Milano e Genova. Nel 1931 la produzione raggiunse i 2600 ettolitri. Quattro anni dopo fu rilevata la fonte di acque minerali Vittoria.
Nel 1936, a soli vent’anni, Roberto Vincent, dopo gli studi svizzeri, a Neuchatel, e il conseguimento del diploma di ragioniere a Torino, tornò ad Aosta per sostituire il padre nella direzione dell’azienda, che diventò così Birra Aosta Roberto Vincent e Co. Partecipò alla seconda guerra mondiale e subito dopo operò un ulteriore rinnovamento degli impianti. Non solo. Mostrò anche molta attenzione nei confronti delle maestranze preoccupandosi per la loro sicurezza sul posto di lavoro, sì da meritarsi il titolo di Commendatore della Repubblica. E la prima metà del secolo per la Birra Aosta si chiudeva alla grande, con una produzione di 6247 ettolitri.
Purtroppo, nel 1965, per una grave malattia, a soli 51 anni, Roberto morì. Gli eredi si resero subito conto di non essere in grado di assumere le dimensioni necessarie per rimanere a galla in un mercato diventato troppo competitivo e, nel proprio interesse, accettarono l’offerta di acquisto da parte del Gruppo Faranda di Messina, che peraltro garantiva la continuazione sul posto dell’attività.
Nel 1966 nacque la S.I.B. (Società Internazionale Birraria), nell’ottica di operare a livello nazionale. L’area occupata dalla ex Birra Aosta, in città, non permetteva la costruzione di un grande stabilimento; pertanto fu comprata una vasta superficie in località Aeroporto, a Pollein.
Del resto l’intesa commerciale raggiunta con la tedesca Henninger Bräu di Francoforte sul Meno dava sicurezza sul futuro dell’azienda che, nel 1973, inaugurò la nuova fabbrica dalla più avanzata tecnologia sotto i migliori auspici.
Tra la fine del 1988 e l’inizio del 1989 la produzione raggiunse i 500 mila ettolitri, e la birra Henninger veniva distribuita su tutto il territorio nazionale, grazie a una rete di circa mille concessionari. Ma ecco, nello stesso anno, la Heineken a mettere a segno un altro dei suoi colpi, questa volta col Gruppo Faranda.
Nel 2007 la Heineken Italia annunciò la chiusura dello stabilimento di Pollein. Si attivò allora la Regione della Valle d’Aosta per procrastinare di almeno due anni il triste evento, purtroppo a caro prezzo. L’intesa prevedeva il pagamento, da parte della Regione, di 16 milioni di euro, in cambio della promozione dell’immagine territoriale tramite un logo su tutte le bottiglie di birra Dreher, Prinz e Von Wunster.
Von Wunster/Seriate
Azienda, in provincia di Bergamo, risalente al 1879. Fu fondata dal ventiquattrenne bavarese Heinrich von Wunster nei locali che avevano ospitato l’importante setificio del padre. Il nome era Premiata Fabbrica di Birra a Vapore e il prodotto, commercializzato in fusti e in bottiglie con tappo di sughero, recava il marchio Birra Seriate.
Nel 1915 la fabbrica, intestata a Heinrich von Wunster, cittadino tedesco quindi considerato un nemico, dovette chiudere. I tre figli maschi invece, Enrico, Federico e Carlo, avendo optato per la cittadinanza italiana, erano stati chiamati alle armi.
L’attività riprese dopo la guerra, al ritorno dei tre fratelli. Questi rilanciarono l’azienda e costringendo al fallimento la rivale Birra Bergamo; ma, per non farla cadere in mano alla concorrenza, dovettero acquistarla l’anno successivo, sobbarcandosi a un pesante onere finanziario.
Con la crisi del 1929 l’azienda fu costretta a operare una fusione, prima, con la Birra Ambrosiana di Vimercate e, poi, con la Birra Italia di Milano, che rilevò le fabbriche di Seriate e di Vimercate. Dall’operazione rimase escluso lo stabilimento di Bergamo, che fu riattivato nel 1935, ma con il nuovo marchio di Birra Orobia, perché le leggi fasciste imponevano nomi italiani alle aziende. Si era in pieno periodo di recessione; ma la Birra Orobia non si arrese.
Nel 1945, quando praticamente non si trovava quasi nulla per produrre la birra, la giudiziosa impresa si diede da fare per scovare quel poco di malto e di luppolo reperibile e, comprando le bottiglie vuote lasciate dagli eserciti alleati, riuscì a battere la concorrenza sul tempo conquistando anche nuovi mercati.
Alla crescita produttiva del 1950 seguì per tre anni un calo continuo; ma dal 1953 l’ascesa della Birra Orobia fu continua, fino a sfiorare i 480 mila ettolitri nel 1980. Intanto, nel 1961, il nome era diventato Birra Von Wunster S.p.A. e, nel 1974, era stato completato il moderno stabilimento di Comun Nuovo (BG).
La solita difficoltà a reggere la concorrenza da soli portò, nel 1986, alla cessione del 35% delle azioni alla Peroni. Nel 1988 entrò in società anche la Stella Artois. Nel 1991 la Interbrew (ex Artois) rilevò la quota della Peroni diventando proprietaria al 100%. Nel 1995 il colosso belga cedette tutte le sue attività italiane alla Heineken.
Prinz Bräu/Località varie
Il gruppo tedesco Rudolf-August Oetker di Bielefeld, uno dei più grossi gruppi industriali dell’allora Germania Federale, volendo entrare nel mercato italiano della birra, costruì, in quattro anni successivi, altrettanti stabilimenti, ciascuno con la propria s.p.a. Il primo, nel 1962 a Carisio (VC), Prin Bräu Carisio; il secondo, nel 1963 a Crespellano (BO), Prinz Bräu Crespellano; il terzo, nel 1965 a Ferentino (FR), Prinz Bräu Ferentino; il quarto, nel 1966 a Bitonto (BA), Prinz Bräu Bari.
Nel 1981 nacque, con sede a Crespellano, la Prinz Bräu Italia S.p.A., che riuniva la quattro società sparse in altrettante regioni. Nel 1982 lo stabilimento di Bitonto fu chiuso e lo comprò l’Adriatica Industrie Alimentari di Adelfia (BA) per produrvi la Birra Castelberg. Nel 1984 la sede legale della Prinz Bräu Italia fu trasferita a Bologna.
Nel 1987 si susseguirono altri colpi di scena. Gli stabilimenti di Ferentino e di Carisio furono chiusi. La Prinz Bräu Italia fu acquistata, attraverso la Wolfsbräu, dalla famiglia romana di Pasquale Alecce (a cui fa capo l’Istituto Farmacoterapico Italiano di Roma) e, attraverso la Gerape S.p.A., dalla famiglia austriaca Windisch-Graetz. La sede della Prinz Bräu Italia fu trasferita a Roma e venne creata, a Crespellano, una sede secondaria. La Wolsbräu, proprietaria di uno stabilimento a Balvano (PZ), dove produceva la birra Wolsbräu appunto, iniziò la produzione anche della Prinz sotto la supervisione della Prinz Bräu Italia.
Nel 1989 il gruppo canadese John Labat comprò la Prinz Bräu Italia e la Birra Moretti di Udine. La produzione continuò nei tre stabilimenti di San Giorgio di Nogaro, Crespellano e Balvano, mantenendo tutti i marchi di birra sotto il nome societario di Moretti S.p.A. Poi le due società rilevate dalla John Labatt si unirono in Birra Moretti S.p.A. con sede a Udine. Finiva così operativamente la Prinz Bräu Italia; mentre la Moretti S.p.A. creava a Balvano una sua s.r.l.
Nel 1995 la Interbrew acquistò il gruppo John Labatt, per cederlo l’anno successivo alla Heineken. Finiva così in mani olandesi la Birra Moretti S.p.A. con tutti i suoi marchi.
Nel 1997 la Heineken Italia dismise, per il provvedimento antimonopolio, lo stabilimento di San Giorgio di Nogara e chiuse quello di Crespellano (rilevato dall’azienda Beghelli). Infine, nel 1999 vendette alla Tarricone lo stabilimento di Balvano. Così della Prinz Bräu Italia S.p.A., la prima azienda tedesca di birra a essere presente nel nostro mercato, rimase solo il marchio, Prinz Bräu (spesso conosciuto in Italia solo come Prinz). La sua produzione, ovviamente a opera della Heineken Italia, sempre su licenza della Binding Brauerei di Francoforte sul Meno, riprese nel 2000. Per il suo basso costo, ultimamente la Prinz è sempre meno disponibile nei supermercati e sempre di più nei discount.
Birra Ichnusa/Assemini
Chiariamo subito che Ichnusa è l’antico nome della Sardegna (in lingua fenicia, “sandalo”, per la sua forma). Furono infatti proprio i Fenici a far conoscere e apprezzare la birra ai Sardi.
Circa il nome del fondatore della Birra Ichnusa, comunque nata a Cagliari nel 1912, c’è qualche incertezza. Secondo alcuni storici, sarebbe stato Giovanni Giorgetti a fondare la Birraria Ichnusa per cederla l’anno successivo ad Amsicora Capra. Secondo altri invece, quest’ultimo era figlio di Giovan Battista, che nel 1860 aveva creato a Quartu Sant’Elena una piccola ma raffinata cantina specializzata nella produzione di vini pregiati destinati all’esportazione. Quindi, seguendo le orme paterne, Amsicora Capra comprava il vino dai più importanti produttori dell’isola, produceva alcol nella distilleria annessa alla sua principale cantina di Pirri, e spediva il tutto, non solo in continente, anche nel resto d’Europa.
Basti pensare che era proprietario di una vera e propria flotta: otto veicoli, tra piroscafi e velieri. Quando poi, dal 2011, la fillossera cominciò a mettere in ginocchio la viticoltura sarda, Amsicora Capra pensò bene di buttarsi nel business birrario.
Per 30 anni la birra Ichnusa rimase confinata in ambito regionale, riscuotendo però grande successo di vendite. Uscì dal proprio guscio subito dopo il secondo conflitto mondiale, sia grazie a una maggiore pubblicità sia grazie alla maggiore richiesta di mercato.
Di fondamentale importanza si rivelò per l’azienda l’ingresso, nel 1959, di Enrico Capra, che acquistò una decina di anni dopo il 48% delle quote dei suoi cugini.
Intanto, nel 1963, fu progettata la costruzione di una nuova unità produttiva ad Assemini, alle porte di Cagliari, in una zona particolarmente ricca di falde acquifere. Nel 1967 Birra Ichnusa si spostò definitivamente nel nuovo stabilimenmto, il primo in Italia a installare serbatoi di fermentazione verticali cilindro-conici.
Nel 1986 lo stabilimento di Assemini, che risultava tra i più efficienti d’Italia, raggiunse i 580 mila ettolitri. La Birra Ichnusa entrò così nel mirino della Heineken, che non tardò a sottoscrivere alcune quote di partecipazione per acquisire la maggioranza l’anno successivo. Furono però lasciate inalterate le linee di produzione e la ricetta della bevanda dall’aroma e dal gusto inconfondibili.
Seguì un ulteriore ampliamento, e ammodernamento, fino a che, nel 2008, lo stabilimento di Assemini assorbì la produzione, non solo del marchio Icnusa, anche di quasi tutti i tipi di birra del gruppo Heineken Italia.
Nel 2011 la birra Ichnusa rinnovò la propria immagine con una nuova bottiglia e una nuova etichetta, con l’inamovibile emblema sardo della croce con i quattro mori bendati.
Simbolo dei valori e delle tradizioni più profonde della Sardegna, la Ichnusa viene da sempre considerata la birra sarda per eccellenza e fa registrare nella regione gli indici di consumo più alti di tutta la Penisola.
Il suo forte legame con la terra d’origine viene, da Birra Ichnusa, incessantemente consolidato dal supporto di diverse attività e manifestazioni locali, come un festival musicale, un concorso musicale, un altro fotografico. Neanche allo sport fa mancare il suo sostegno: dopo aver sponsorizzato per anni il Cagliari Calcio, dal 2012 è diventata sponsor della Dinamo Basket Sassari per incrementare il mercato nel nord dell’isola. E infine, per valorizzare il patrimonio storico e culturale della Sardegna, l’azienda patrocina una borsa di studio presso l’Università di Cagliari.
Birra Messina/Messina
Vedi Birra dello Stretto.