Numero 19/2020

6 Maggio 2020

Analisi approfondita delle etichette delle birre industriali

Analisi approfondita delle etichette delle birre industriali

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In un precedente articolo ho illustrato quali sono le prescrizioni di legge per quanto riguarda le etichette dei prodotti alimentari, birra compresa. In questo secondo articolo cercherò invece di calarmi un po’ più nello specifico, analizzando qualche caso emblematico di birre “industriali”, intendendo con questo le birre che si trovano sugli scaffali dei supermercati e sono prodotte da grosse realtà spesso multinazionali.

In effetti sono solo dieci le società che operano sul mercato italiano, con a capo la Heineken, olandese, che da sola detiene il 30 % del mercato italiano (dati AssoBirra relativi al 2019), seguita dalla Peroni (18.8 %) che, contrariamente a quello che si può pensare, visto il nome italiano, fa parte del gruppo Asahi Europe LTD. La Heineken ad esempio opera nel nostro paese con i marchi Moretti, Ichnusa, Dreher e numerosi altri.

 

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Se prendiamo allora una bottiglia di birra “tipo”, una lager da bere con una buona pizza per intenderci, vediamo innanzitutto che le etichette sono due: una davanti e una dietro. Quella davanti, oltre al marchio riporta, come da indicazioni di legge, il nome “birra”. Non è richiesto altro ed in effetti fino a poco tempo fa era così. Adesso sempre più spesso, accanto alle lager, la produzione si è diversificata e vediamo indicato anche lo stile (come IPA, ad esempio), perché le grosse industrie hanno capito che nei consumatori da qualche anno c’è maggior consapevolezza, anche grazie alla “rivoluzione birraria”.

Molto più interessante è sicuramente l’etichetta posta sul retro. In questa sono riportate le informazioni più importanti, come lo stabilimento di produzione, il grado alcolico, la data di scadenza e soprattutto gli ingredienti. Alcune etichette riportano questi ultimi solo in italiano, mentre altre in molte lingue. Queste sono indubbiamente molto più difficili da leggere, ma possono essere interessanti e riservare sorprese, come vedremo tra poco. In una classica lager, soprattutto se a basso costo gli ingredienti, in ordine di peso, saranno questi: acqua, malto d’orzo, granturco (o mais o grits di mais), luppolo. Orbene, che cosa ci fa il mais nella birra (il gritz di mais altro non è che “semolino di mais”, ovvero il risultato della macinatura)? In effetti la legge italiana (Legge n. 1354 del 16/08/1962, modificata con Decreto del Presidente della Repubblica 30/06/1998, n. 272). prevede questa possibilità e recita: Il malto di orzo o di frumento puo’ essere sostituito con altri cereali, anche rotti o macinati o sotto forma di fiocchi, nonche’ con materie prime amidacee e zuccherine nella misura massima del 40% calcolato sull’estratto secco del mosto. Chiaramente questa sostituzione del più nobile malto d’orzo con un cereale diverso comporta un’abbassamento dei costi di produzione e anche delle qualità organolettiche della birra, a meno che non sia utilizzato di proposito, come in alcuni stili americani . Molte birre anche industriali, comunque, prevedono l’utilizzo di solo malto d’orzo, e da qui l’importanza di leggere correttamente le etichette, se preferiamo un prodotto di qualità.

 

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Nelle birre industriali capita poi di trovare, al posto della dicitura “luppolo”, quella di “estratto di luppolo”. Questo prodotto è maggiormente standardizzato rispetto ai coni o ai pellet che si usano nell’homebrewing casalingo e quindi a volte preferito per il calcolo dell’amaro. Inutile dire che il tipo di luppolo utilizzato non viene mai indicato nelle birre industriali (tranne forse eccezioni che non conosco).

Infine, per ritornare alle sorprese a cui accennavo prima leggendo le etichette multilingue, vi propongo solo un esempio. Mi è capitato, leggendo appunto un’etichetta di birra scura, di notare come nell’elenco italiano comparisse solo malto d’orzo, mentre nell’elenco in lingua tedesca e francese comparisse negli ingredienti un non determinato E150, cioè il caramello, utilizzato probabilmente per dare colore ad una birra altrimenti chiara. Già nel 2014 il Giornale della Birra aveva parlato di questo, in un articolo intitolato “L’UE autorizza l’uso del colorante E 150 a-d nelle “simil – birre”!

Insomma, mi viene da dire “meditate, gente, meditate”, e leggete bene gli ingredienti di quello che andrete a bere.

 

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Massimo Prandi
Info autore

Massimo Prandi

Un Albese cresciuto tra i tini di fermentazione di vino, birra e… non solo! Sono enologo e tecnologo alimentare, più per vocazione che per professione. Amo lavorare nelle cantine e nei birrifici, sperimentare nuove possibilità, insegnare (ad oggi sono docente al corso biennale “Mastro birraio” di Torino e docente di area tecnica presso l’IIS Umberto Primo – la celeberrima Scuola Enologica di Alba) e comunicare con passione e rigore scientifico tutto ciò che riguarda il mio lavoro. Grazie ad un po’ di gavetta e qualche delusione nella divulgazione sul web, ma soprattutto alla comune passione e dedizione di tanti amici che amano la birra, ho gettato le basi per far nascere e crescere questo portale. Non posso descrivere quante soddisfazioni mi dona! Ma non solo, sono impegnato nell’avvio di un birrificio agricolo con produzione delle materie prime (cereali e luppoli) e trasformazione completamente a filiera aziendale (maltazione compresa): presto ne sentirete parlare!