Numero 01/2018

1 Gennaio 2018

“La birra italiana non esiste”… eppure potremmo brassarla!

“La birra italiana non esiste”… eppure potremmo brassarla!

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La birra italiana non esiste”: un’affermazione forte, quasi sconcertante; un motto dal tono polemico che sembra volere attirare una nota di egocentrismo su chi la pronuncia e lanciare ingiustificato discredito sui tanti microbirrifici artigianali che costellano la nostra Nazione. Una frase che incomincia, invece, ad assumere un significato sempre più forte e che porterà probabilmente nel prossimo futuro ad una vera e propria rivoluzione culturale negli stili di consumo e nel modo di brassare la birra artigianale.

Eppure, ad oggi, la birra italiana, artigianale ed industriale, in realtà non è poi così italiana.

Se è vero che il consumatore si scandalizza quando trova nel proprio piatto una mozzarella “italiana” prodotta con latte dell’Est Europa, oppure deglutisce con riluttanza un salame prodotto in Italia con maiali nati in Spagna e ingrassati in Francia, o ancora ingerisce con non troppa fiducia un latte di soia Made in USA, perché dovrebbe entusiasmarsi per una birra i cui malti sono prodotti in Germania con orzi canadesi, addizionata di zuccheri di dubbia provenienza ed amaricata con luppoli che arrivano dall’altra parte dell’emisfero?

Per quale reale ed oggettivo motivo è giusto attribuire l’effige del nostro Tricolore  ad una bevanda la cui unica  caratterizzazione di italianità deriva dall’aver subito l’ultima fase di trasformazione, ovvero la brassatura e fermentazione, nell’ambito dei confini nazionali? Oppure, la domanda sorge spontanea, è la nazionalità del Mastro birraio a definire la patria della birra?

Insomma, che differenza intercorrerebbe tra una normale birra artigianale del nostro Paese ed una birra brassata dallo stesso Mastro birraio, con gli stessi ingredienti marchiati dalle celebri multinazionali del malto, del lievito e del luppolo,  seguendo la medesima procedura di brassatura in Francia, Germania, Spagna o Nuova Zelanda?

Domande retoriche dalla provocatoria risposta scontata? In realtà, no!

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Infatti, oggi in Italia possediamo, oltre alle indispensabili condizioni pedoclimatiche, la tecnologia e la possibilità di produrre tutte le materie prime entro i confini nazionali, cereali e luppoli inclusi, nonché di trasformarli in semilavorati (malto e coni essicati od in pellet). Cosa frena allora la realizzazione di una birra  davvero italiana e libera dalla dipendenza dall’estero e delle multinazionali?

Una causa risiede sicuramente nella scarsa propensione degli imprenditori del settore birrario, oggi molto più impegnati a fare innovazione di prodotto che di processo, ad investire nella sperimentazione della coltivazione di orzo e cereali da birra e luppolo. Infatti, nonostante l’Italia sia pedoclimaticamente ottimale per le colture  cerealicole, pochissime sono le realtà che ne perseguono seriamente la produzione, acquisendo e portando in coltivazione superfici rilevanti e quantomeno sufficienti a soddisfare nel lungo periodo le esigenze di approvvigionamento del birrificio, anche tenendo conto delle opportune rotazioni colturali. Da sottolineare, peraltro, come in Italia sia ancora poco sviluppata la valutazione delle performance produttive delle differenti varietà di cereali idonee ai fini birrari, studiate nei diversi ambienti: questo obbliga, quindi, i singoli a sperimentare per più anni ai fini di individuare quali cultivar meglio rispondano al microclima ed alle caratteristiche specifiche del sito produttivo, con evidente dispendio di tempo, oltreché di risorse economiche. Infine, bisogna considerare che per garantire l’autoproduzione dell’orzo e delle materie prime cerealicole non è sufficiente la fase di coltivazione: sono necessari investimenti, finanziariamente rilevanti, per lo stoccaggio della granella, nonché per la pre-lavorazione (pulizia, vagliatura) e conservazione.

Per quanto riguarda il luppolo, complice la recentissima evoluzione della normativa di settore, stanno proliferando numerosi piccoli impianti, spesso nati non in sinergia con i birrifici e gestiti più per passione (o moda), che secondo i dettami di un business plan serio: il salto di qualità in questo senso si potrà avere solo con investimenti razionali, che considerino come priorità non solo l’ottenimento di un buon prodotto, ma anche la sua selezione, conservazione, trasformazione in pellet o bugs. Ad oggi, secondo un censimento condotto dal progetto Luppolo.it condotto da CRA e Mipaf, la superficie investita a luppoleto in Italia e prossima a poco più di 30 Ha, praticamente inesistente se confrontata alla superficie agricola del nostro Paese (che ammonta a circa 18milioni di ettari).

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Sorge spontaneo chiedersi perché, a differenza di ciò che avviene per altri settori alimentari (stalla & caseificio, vigneto & cantina), il settore birrario veda uno scollamento così forte tra il comparto agricolo e quello brassicolo. La ragione probabilmente risiede proprio nelle dinamiche errate che hanno innescato il promesso matrimonio (promesso ai consumatori, si intende): i birrifici tentano di diventare aziende agricole, mentre dovrebbero essere gli imprenditori agricoli, dopo aver affinato le tecniche di produzione delle materie prime, a diventare mastri maltatori e mastri birrai. Da notare, inoltre, come il tentativo di “agricolizzazione”  dei birrifici sia dettato più da ragioni economiche (contributi PSR, regime fiscale vantaggioso) e di marketing, che da una reale volontà di realizzare una effettiva filiera corta.

In tutta questa situazione, di certo, una responsabilità sostanziale è da attribuire alla politica: mancanza di investimenti strutturalmente nella ricerca, incapacità di indirizzare gli agricoltori verso un settore di trasformazione remunerativo come quello brassicolo (quasi tutti i Piani di sviluppo rurale regionale non prevedono contributi economici per la realizzazione di un birrificio in azienda agricola), fallimento parziale della legge sulla birra artigianale ed in merito alla riduzione delle accise (a tutto vantaggio dei “big”, piuttosto che degli “artigianali propriamente intesi”).

 

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Altra nota dolente riguarda la maltazione: in Italia esistono un numero esiguo di micro malterie artigianali (non più di dieci sparse a livello nazionale e non in rete tra loro), non a caso di proprietà di aziende agricole o di consorzi agricoli (La Vallescura di Piozzano, in provincia di Piacenza, e Cascina Motta di Sale, nei pressi di Alessandria ne sono due esempi molto noti) che autoproducono orzo distico ad uso birrario, entrambe in regime di agricoltura biologica (fornendo anche servizio di lavorazione conto terzi). Ad oggi, però, queste piccole malterie soffrono ancora di una forte variabilità, sia per le differenti ed incostanti caratteristiche delle materie prime, che per la difficoltà nel controllo di processo. Questo aspetto, per molti ritenuto uno svantaggio, dovrebbe invece essere valorizzato come l’elemento per la nuova rivoluzione del concetto di birra artigianale italiana.

Prendendo come caso studio queste aziende, emerge come entrambe siano partite da una coltivazione agricola già avviata, sperimentando dapprima la produzione di orzo distico, quindi la maltazione, per arrivare, come ultima fase, all’avvio della coltivazione del luppolo e, quindi, all’obiettivo di aspirare alla produzione di birra con materie prime 100% autoctone, autoprodotte, trasformate e brassate in azienda. Un modello facile da perseguire ed alla portata di tutti? Certo che no: gli investimenti per l’azienda agricola, sia in termini di dotazioni di terreno, strutture, attrezzature e competenze, superano di gran lunga quelli necessari per l’acquisto e gestione della malteria, che (notare bene!) a sua volta sono maggiori di quanto richiesto per un microbirrificio.

Un modello, quindi, che per essere sviluppato, considerando tutte le variabili sopra indicate, richiede non solo investimenti economici, ma anche l’acquisizione progressiva del background per la conduzione dei processi produttivi (in campo, in malteria, in cantina di brassatura e fermentazione) e che, ad oggi e per la sua particolarità, richiede uno sviluppo per step successivi.

Il caso del CoBI, ovvero della malteria consortile, pur essendo una buona idea sulla carta, è rimasto in Italia un caso isolato ed a sé stante: il fatto che l’orzo del singolo socio conferitore non sia discriminato, ma diventi parte di un tutto con impossibilità di tracciabilità aziendale, ha ridimensionato le aspettative di molti.

Invece, l’alternativa di mandare il proprio prodotto a maltare in una grande malteria industriale per avere indietro il proprio malto è pura utopia, illusione (o forse – diciamolo francamente – meglio dire il classico giro di DDT e fatture, questo sì all’italiana!).

 

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Quindi, nonostante le mille difficoltà sopra indicate e i tanti falsi miti in parte svelati, produrre una birra davvero italiana per origine delle materie prime agricole, prima trasformazione del malto e del luppolo ed, infine, brassata entro i confini del territorio nazionale è possibile! Qualcuno, ma davvero in pochi ci stanno provando e riuscendo.

Certo, appare evidente, la necessità di un profondo cambiamento culturale anche da parte del consumatore: è fondamentale abbattere lo stereotipo della birra standard sinonimo di qualità. Anzi, la birra davvero buona, davvero artigianale, davvero a filiera aziendale, non può essere uniforme, ma deve mutare di anno in anno, di ciclo di maltazione in ciclo di maltazione, di cotta in cotta…

Così come ogni apprezziamo un ottimo vino DOCG e ne valorizziamo l’unicità del vitigno, la provenienza da un vigneto ben esposto, l’influenza dell’andamento climatico della singola annata sulle peculiarità del bicchiere, l’affinamento in una antica botte grande di rovere nazionale, così dovremmo apprezzare la birra italiana per il suo legame con il territorio, la sua reale origine locale, la capacità di donare emozioni nuove e mai perfettamente replicabili, mai uguali a se stesse.

Questo potrebbe diventare il nuovo “Manifesto della Birra Italiana”, da cui ogni Mastro birraio ed ogni appassionato di birra italiano dovrà trarre ispirazione ed impegnarsi concretamente, ciascuno nel proprio ruolo  di imprenditore lungimirante e consumatore consapevole, per far sì che la birra nel nostro Paese diventi una tradizione e non sia limitata ad un fenomeno di moda evanescente e passeggero.  

 

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Massimo Prandi
Info autore

Massimo Prandi

Un Albese cresciuto tra i tini di fermentazione di vino, birra e… non solo! Sono enologo e tecnologo alimentare, più per vocazione che per professione. Amo lavorare nelle cantine e nei birrifici, sperimentare nuove possibilità, insegnare (ad oggi sono docente al corso biennale “Mastro birraio” di Torino e docente di area tecnica presso l’IIS Umberto Primo – la celeberrima Scuola Enologica di Alba) e comunicare con passione e rigore scientifico tutto ciò che riguarda il mio lavoro. Grazie ad un po’ di gavetta e qualche delusione nella divulgazione sul web, ma soprattutto alla comune passione e dedizione di tanti amici che amano la birra, ho gettato le basi per far nascere e crescere questo portale. Non posso descrivere quante soddisfazioni mi dona! Ma non solo, sono impegnato nell’avvio di un birrificio agricolo con produzione delle materie prime (cereali e luppoli) e trasformazione completamente a filiera aziendale (maltazione compresa): presto ne sentirete parlare!