Numero 43/2020

21 Ottobre 2020

Wildcrafting Brewing

Wildcrafting Brewing

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Il nostro è il tempo inquietante dell’incombente emergenza climatico-ambientale. Mentre milioni di giovani attivisti, sempre più preoccupati delle alterazioni ambientali prodotte dallo stile di vita occidentale, scendono in piazza in tutto il mondo con cadenza settimanale, il resto delle società sviluppate si dividono tra negazionismo e ignavia, due equivalenti forme di ottusa miopia rispetto all’ineluttabilità del disastro che si verificherà a carico della nostra specie, se non decidiamo, ed in fretta,di fare qualcosa. In realtà, sono davvero pochi coloro che abbiano preso coscienza dei problemi ambientali ed operato per cambiare significativamente il proprio impatto sul pianeta.Ancora meno sono stati finora i governi a prendere atto dell’enorme responsabilità che ricade su questa generazione, comportandosi in maniera opposta a quanto imporrebbe razionalità e solidarietà intergenerazionale. Il livello di disimpegno e di impreparazione della politica rispetto a questo tema assolutamente centrale è talmente evidente che non sono affatto rari i politici che si lasciano sfuggire dichiarazioni nelle quali auspicano ancora oggi, incredibilmente, la crescita. Il pianeta non può più permettersi alcuna crescita. I più, diciamolo, in questi giorni tragici, sono concentrati sul riacuirsi della pandemia da Covid-19, ma molti erano sostanzialmente inconsapevoli dell’esistenza di una questione ambientale anche prima della pandemia. E queste non sono buone notizie. Tutt’altro. Ma le brutte notizie sono solo all’inizio. Quello che dovrebbe preoccupare,e molto, tutti noi (negazionisti ed ignavi inclusi) è la grave crisi che sta attraversando la biodiversità del pianeta. La situazione era così grave,già 10 anni fa,che le Nazioni Unite hanno ritenuto urgente mettere attorno ad un tavolo i circa 200 Stati componenti la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica, al fine di ideare e condividere l’ormai famoso Piano Strategico per la Biodiversità 2011-2020.Sono stati così fissati 20 ambiziosi obiettivi, meglio noti come Aichi Targets, in onore del luogo (Nagoya, Prefettura di Aichi, Giappone) che ha ospitato il meeting. A 10 anni di distanza da quel meeting che prometteva meraviglie,il Global Biodiversity Outlook 5 (GBO-5), pubblicato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica, informa laconicamente il mondo che,dei 20 obiettivi a suo tempo fissati, solamente 6 sono stati raggiunti, e soltanto in minima parte.

 

 

Gli Aichi Targets andavano dalla sensibilizzazione globale sul valore della biodiversità fino all’abolizione del sostegno economico alle attività dannose per la biodiversità stessa, dall’aumento della conoscenza sulle specie a rischio di estinzione,alla mobilitazione di adeguate risorse finanziarie per la difesa attiva della biodiversità. Se poi scendiamo un po’ nel dettaglio di questi obiettivi, scopriamo che in realtà si trattava di 60 target minori,raggruppati nei più pubblicizzati 20. Ma anche ragionando sui 60 obiettivi minori c’è molto poco di cui rallegrarsi: 7 sono stati raggiunti, 38 mostrano modesti progressi, il resto è del tutto invariato. Ed anche sugli obiettivi che hanno fornito risultati più incoraggianti non mancano luci e ombre. Il tasso di deforestazione,ad esempio, che risulterebbe diminuito globalmente di circa un terzo rispetto al decennio 2000-2010. Sarebbe senz’altro una buona notizia, se solo la superficie forestale distrutta dai wildfire negli ultimi anni non avesse raggiunto ripetutamente livelli record. Su taluni aspetti ci giungono dati sicuramente incoraggianti, come l’aumento delle aree protette terrestri (10-15%) e di quelle oceaniche (3-7%), l’avvio di processi di eradicazione delle specie aliene, l’introduzione di norme a tutela della biodiversità in gran parte dei paesi della Convenzione.

La strenua difesa della biodiversità, è bene ricordarlo, non è affatto uno sciocco capriccio da polverosi naturalisti ottocenteschi, ma risponde direttamente alla necessità di conservare sul nostro pianeta le condizioni che consentono anche alla nostra specie di vivere e prosperare. La biodiversità, organizzata in ecosistemi e biomi – la cui complessità di interrelazioni, funzionalità e produttività sfuggono in gran parte persino alla scienza – è attraversata da un flusso di energia e di materia, e nel compiere tali processi contribuisce enormemente al mantenimento degli equilibri ecologici di cui noi stessi non possiamo assolutamente fare a meno. La biodiversità riesce perfino nel difficilissimo compito di compensare, almeno entro certi limiti, anche tutte le ulteriori azioni negative che l’uomo compie a carico dell’ambiente. La biodiversità, insomma, anche oltre tutte le ragioni intrinseche e di natura etica, sulle quali i filosofi ambientali hanno speso fiumi di inchiostro, merita di essere conservata se abbiamo a cuore la sopravvivenza della nostra stessa specie.È pertanto impensabile che si perpetui il distruttivo scenario del business asusual, perché gli effetti potrebbero essere devastanti per la civiltà umana come l’abbiamo conosciuta. E sebbene i pareri sono tutt’altro che univoci, molte voci concordano nel rappresentare la situazione ambientale globale come senz’altro grave,ma non irreversibile. Anche al sottoscritto piace pensare che non sia ancora troppo tardi per invertire l’attuale tendenza. È necessario però che ciascuno di noi fornisca il proprio contributo alla conservazione. È lo stesso Global Biodiversity Outlooka suggerire alcune delle misure da adottare per approdare al 2050 in condizioni migliori di quelle attuali: conservare la biodiversità a livello locale, aumentare le aree protette, attuare azioni efficaci di conservazione, ripristinare su larga scala gli habitat degradati.Un’azione perentoria in difesa della biodiversità non può prescindere da un drastico cambiamento nelle abitudini degli esseri umani, in particolare quelli che vivono nella parte ricca del mondo erodendo enormi quantità di risorse. Anche le nostre strampalate abitudini alimentari dovranno necessariamente cambiare se vogliamo offrire una qualche residua speranza ai nostri figli ed ai nostri nipoti. Ormai esiste un’ampia e consolidata letteratura sulle abitudini alimentari da modificare per contrastare la crisi della biodiversità e quella climatica. La informazioni disponibili sembrano tutte convergere sulla necessità intanto di una drastica riduzione del consumo di alimenti di origine animale. Ma la biodiversità è minacciata anche da altri comportamenti umani. La prima causa globale di perdita di biodiversità è la distruzione diretta degli habitat naturali (come abbattere le foreste per farne i pascoli necessari ad allevare gli animali che poi diventano la carne che mangiamo in quantità eccessiva!). È fin troppo facile da comprendere: se distruggo gli habitat naturali a scala globale è evidente che molte delle specie ivi presenti, soprattutto quelle con distribuzione piuttosto limitata, finiranno con l’estinguersi e sparire per sempre dalla faccia della Terra. La seconda causa globale di perdita della biodiversità è rappresentata invece dall’introduzione di specie aliene in habitat differenti da quelli in cui si sono naturalmente evoluti e distribuiti. E questo vale tanto per gli animali quanto per i vegetali. Vediamo qualche esempio. Durante i primi tentativi di colonizzazione del centro semi-desertico dell’Australia, fu importato il dromedario(Camelusdromedarius) per agevolare il trasporto delle merci. Alcuni esemplari sfuggirono ai loro custodi, ed altri si unirono ai primi fuggitivi quando furono deliberatamente rilasciati poiché resi ormai inutili dal trasporto motorizzato. La specie si è così ben adattata al nuovo habitat da cominciare a riprodursi a dismisura a partire da quei pochi esemplari, minacciando così la rada vegetazione e le discontinue riserve idriche del centro dell’Australia. È evidente che le risorse consumate in gran quantità da questi animali non potranno essere disponibili per i numerosi altri erbivori endemici del continente australiano. Le popolazioni autoctone di erbivori con ridotte risorse alimentari a disposizione tendono a ridurre il tasso di riproduzione, diventando sempre più rare, e la rarefazione costituisce proprio il primo passo verso l’estinzione. Lo stesso vale per le piante. Sempre per restare in Australia, molti anni fa qualcuno ha avuto la pessima idea di provare a coltivare il fico d’India (Opuntia ficus-indica)una specie esotica originaria del Messico che è rapidamente diventata invasiva in Australia, occupando migliaia diettari di bush sottratti alla flora nativa locale e modificando irreversibilmente gli ecosistemi locali. È chiaro che queste bioinvasioni, ormai diffuse in tutto il mondo, sono una forma di inquinamento (anche detto inquinamento biologico) molto subdola,per la natura stessa degli agenti inquinanti, che sono organismi viventi e tendono a riprodursi se le condizioni ambientali lo consentono. Ciò comporta la destabilizzazione degli ecosistemi oggetto di bioinvasione, con conseguente estinzione di diverse specie autoctone.È certamente auspicabile evitare l’introduzione di ulteriori elementi viventi inquinanti, ma altrettanto desiderabili sarebbero lungimiranti progetti di eradicazione delle specie aliene. Ma tali progetti, raramente tentati finora su vasta scala, soprattutto a causa dei costi proibitivi, presentano moltissime difficoltà operative, in parte legate alle cosiddette seedbanks (i semi di queste stesse piante che si accumulano nel terreno rimanendo quiescenti) ed alla possibile ripartenza dell’invasione, che vanificherebbe,evidentemente,sforzi e costi sostenuti per rimuovere gli esemplari alieni.

L’attenzione del mondo della birra sui temi della sostenibilità tende a concentrarsi per lo più sulla pur importante tematica energetica. L’uso di energie alternative, la valorizzazione energetica degli scarti di produzione, ed ogni ulteriore espediente che tende a ridurre l’impatto del brassaggio sugli equilibri del pianeta sono sicuramente da considerarsi i benvenuti, come pure il sempre più frequente uso di ingredienti autoprodotti o a km zero. Tuttavia queste pratiche, seppur lodevoli, non contribuiscono in alcun modo alla riduzione dell’impatto delle specie aliene sugli ecosistemi naturali o semi-naturali di un determinato territorio.

 

 

 

Ogni epoca vanta però le sue persone straordinarie. Grazie alle proprie competenze e ad una speciale sensibilità queste persone sono,meglio di altri,capaci di leggere la realtà che li circonda ed il tempo in cui vivono. E sulla base di tali consapevolezze sono capaci di evolvere approcci originali ed efficaci ai problemi che affliggono il loro tempo. Pascal Baudar,senza alcun dubbio, è una di queste persone.Non considera sé stesso un forager, ma piuttosto un esploratore gastronomico ed un wildcrafter. La differenza, sebbene apparentemente sottile, è invece assai significativa, perché se entrambi gli approcci prevedono il prelievo in natura di piante come alimento o medicina, il wildcrafting si caratterizza per una dimensione etica nell’interazione uomo-ambiente,finalizzata ad aiutare l’ambiente a superare le criticità esistenti (es. conservazione delle risorse vegetali, protezione specie minacciate, eradicazione specie invasive, etc.). Oltre che nei numerosi viaggi e nella sua esperienza personale, Baudar ha trovato ispirazione nel libro Tending the wild di M. Kat Anderson, ormai un classico della letteratura della sostenibilità, che illustra magistralmente alcuni esempi virtuosi di relazioni armoniose tra umani e wilderness. Baudar però, ha poi finito per spingersi oltre. La sua visione si avventura infatti oltre la semplice sostenibilità, prevedendo dall’interazione evidenti benefici anche per l’ambiente.

Nel sud della California, dove vive da molti anni, ed anche in molti altri stati americani,numerose piante esotiche invasive sono commestibili. Per questo il wildcrafting consapevole, ha correttamente pensato Baudar, può aiutare attivamente l’ambiente, attraverso la rimozione selettiva delle piante non-native e la disseminazione di quelle autoctone. E la cosa straordinaria è che nel corso delle sue ricerche il nostro protagonista si imbatte spesso in alimenti gourmet,sui quali tende a concentrare la sua approfondita ricerca culinaria o brassicola. L’attività di Baudarsi inserisce in un più ampio movimento di curiosi esploratori dell’uso culinario delle piante selvatiche, che comprende perfino alcuni top ristoranti in giro per il mondo.

 

 

Classe 1961, originario di Tournai, comune belga francofono della Vallonia, a sud di Bruxelles, immerso nel bacino idrografico della Schelda, a pochi chilometri dal confine francese. Nella sua città natale ha frequentato la Academy of Fine Art, per poi esercitare la professione di graphic designer per 30 anni e di fotografo di moda per altri 3. Poi, l’avventura americana, a Los Angeles, California,a partire dal 1992. Moda, fotografia, mondanità. Forse non tutti sono tagliati per quello stile di vita. E quando è il momento di cambiare,spesso occorre una nuova formazione da cui ripartire. E se hai intenzione di occuparti di alimenti, della loro combinazione, del loro consumo, della conservazione, è assai probabile che un master in Food Preservation, magari alla University of California, possa tornarti parecchio utile. Pare tuttavia che, nel caso di Baudar, praticamente tutte le sorprendenti capacità di manipolazione degli ingredienti naturali, di utilizzo delle piante selvatiche, comprese le varie tecniche di conservazione del cibo e la produzione di birra, siano sostanzialmente frutto di autoapprendimento. Si prova, si sbaglia, si riprova. Fino a quando non si trova la giusta combinazione e la ricercata efficacia dei processi. D’altro canto,sebbene oggi si possano trovare alcuni libri sull’argomento, non esistono di fatto scuole che insegnano queste abilità, ed ancora oggi molte di tali conoscenze si trasmettono per via orale. Pascal, ha poi frequentato centinaia di lezioni, nel corso degli anni,tenute da botanici, Nativi Americani, survivalisti, forager e così via.

 

È assai probabile che negli Stati Uniti, e forse anche altrove, vivano altre persone che hanno raggiunto, grazie ad una lunga ed assidua frequentazione e fraternizzazione con la Natura, un livello di consapevolezza ambientale ed una conoscenza minuziosa delle risorse presenti nel territorio nel quale vivono, assimilabile a quella di Pascal Baudar. Tuttavia, quanto davvero caratterizza la sua attività, rendendola assolutamente unica ed originale, consiste nel non aver fatto della sua incessante ricerca in Natura elemento di separazione dalla società occidentale, bensì nell’aver saputo socializzare le sue conoscenze, attingendo a considerevoli doti comunicative personali, tanto verbali quanto fotografiche. I testi sono semplici e facilmente comprensibili ma, basta sfogliare uno qualunque dei suoi libri, per realizzare immediatamente che la qualità delle immagini fotografiche è mediamente superiore a qualunque pubblicazione vagamente simile. Al momento Baudar ha pubblicato 3 libri nel seguente ordine cronologico: The New Wildcrafted Cuisine: Exploring the Exotic Gastronomy of Local Terroir (2016), The Wildcrafting Brewer: Creating Unique Drinks and Boozy Concoctions from Nature’s Ingredients (2018) e Wildcrafted Fermentation: Exploring, Transforming, and Preserving the Wild Flavors of Your Local Terroir (2020). Il primo volume, da subito si è rivelato un best-seller, consegnando l’autore alla storia. E analogo successo hanno riscosso i due successivi. Il secondo, quello relativo al wildcrafting applicato alla produzione di birra ed altre bevande alcoliche, per chi scrive, è stato un’autentica rivelazione, sia per quanto attiene all’aspetto meramente creativo, ma soprattutto per la profondità e lucidità delle motivazioni etiche che sottende. E da questa lettura illuminante è nato, fatalmente, il desiderio di saperne di più sulla persona, sulle sue esperienze, sulle sue attività.

 

 

Bene, Mr. Baudar, iniziamo. Prima di tutto, grazie mille per il tuo tempo. Per me, le assicuro, è un grande piacere ed un grande onore poterla intervistare. La mia prima curiosità, come botanico, è come e quando è iniziato il tuo interesse per le piante selvatiche? E quando ha cominciato ad interessarsi alle piante selvatiche applicate alla produzione della birra?

Il mio interesse è iniziato in tenera età, ho sempre voluto fare quello che faccio attualmente ma all’epoca non c’erano scuole sull’argomento, pochissimi libri, niente Internet. Quindi l’unica conoscenza che sono stato in grado di raccogliere da bambino proveniva dagli anziani del posto, inclusa mia nonna.

A quel tempo (anni ‘70), molti anziani locali avevano ancora la conoscenza delle piante commestibili di base ed era considerato del tutto normale aggiungere cibo selvatico alla propria dieta come dente di leone (Taraxacumcampylodes), nocciole (Corylus avellana), noci (Juglans regia), farinello (Chenopodium album) e così via.

Ovviamente, crescendo in Belgio, ho conosciuto molte birre interessanti fatte con lievito selvaggio e ingredienti insoliti ma, francamente, all’epoca ero ancora troppo giovane per associare le piante selvatiche alla produzione della birra. Il concetto di fermentazione con piante selvatiche è venuto molto più tardi e originariamente come metodo di conservazione degli alimenti, che è ciò che è la fermentazione del lievito.

 

Suppongo che il tuo approccio sensoriale alle piante e all’ambiente sia il tuo lavoro ma anche il tuo stile di vita. Come, dove e quando hai capito che il tuo interesse per le piante avrebbe potuto diventare il tuo interesse principale e un’attività per tutta la vita?

Questo è il mio stile di vita e la mia passione, non credo di avere un lavoro. Ho praticamente deciso di fare di questa vita dopo aver frequentato la mia prima lezione di foraging a Los Angeles nel 1999.Possiamo definirla un’epifania. Tutto l’amore che avevo per la Natura e la motivazione che avevo da bambino,e perduto da tempo, ne sono usciti rivitalizzati. È stato più facile a dirsi che a farsi, e mi ci sono voluti 15 anni prima di riuscire a creare il mio stile di vita, ma non potevo tornare indietro.

 

Oggi puoi senz’altro vantare una grande esperienza sulla flora del Nord Europa e della California meridionale, così come su quella di altri territori degli Stati Uniti (Arizona, Oregon, Utah, Vermont, Washington) dove tieni le tue lezioni, ma probabilmente all’inizio non è stato così facile per te affrontare tutte queste diverse specie di piante, vero?

Sì e no. Non possiedo una istruzione formale come botanico, ma ancora una volta, il foraging e il wild food non sono qualcosa che viene insegnato a scuola, quindi anche un botanico esperto potrebbe non essere a conoscenza degli usi culinari o medicinali delle piante.

Ma detto questo, non è un viaggio difficile, solo lungo. Puoi iniziare il giorno 1. Ad esempio, puoi prendere un dente di leone e trascorrere una settimana imparando, sperimentando e cucinando con esso. Una settimana dopo, puoi raccogliere un’altra pianta comune e ripetere il processo. Entro la fine dell’anno, sei già un po’ un esperto dei più comuni wild edibles rispetto al 99,999% della popolazione.

Con Internet e tutti i libri disponibili, la ricerca è oggi più semplice che mai, ma detto questo, consiglio sempre di trovare qualche riferimento locale, una persona che sia ben informata sulle piante, e frequentare il maggior numero possibile di lezioni e laboratori.

 

Mentre molti birrai, sia in Europa che in America, stanno aumentando il loro interesse per l’utilizzo di piante non convenzionali nelle loro birre, la maggior parte di loro le acquista ancora in erboristeria. È più facile e richiede meno tempo, siamo tutti d’accordo, ma immagino che il wildbrewing sia molto più che fornire alcuni ingredienti. Implica stabilire un rapporto più profondo con la Natura attraversando campi e boschi, godendosi il luogo, respirando aria pulita, identificando le proprie piante “da birra” e raccogliendo la quantità necessaria evitando di danneggiare le popolazioni vegetali locali. Cosa pensa di questa visione? Pensa che sia troppo ingenua e sognante?

Il foraging dei propri ingredienti consente di creare birre che sono davvero una rappresentazione del proprio ambiente e dei sapori locali. Non è certo qualcosa che puoi acquistare in erboristeria. È una vera esplorazione del tuo terroir e, come il vino, anche le condizioni del suolo influenzeranno i sapori. Anche le stagioni trasmettono sapori. Un’artemisia invernale (Artemisia vulgaris o A. californica) avrà un sapore completamente diverso da quello prodotto in primavera.

Penso che sia la bellezza del wild brewing: le tue creazioni sono la testimonianza di un momento nel tempo, di un luogo, qualcosa che le birre commerciali non possono ottenere facilmente.E a proposito, il mio libro non parla esclusivamente di fare birre. Direi che forse il 15% del contenuto sarebbe considerato “simile alla birra”, ma il libro parla della fermentazione del lievito con le piante ed anche di come creare interessanti intrugli alcolici.

Molte delle ricette sfideranno le etichette moderne. Non sono né vini, birre, bibite, idromele o altre bevande “approvate”. Il wildcrafted brewingc onsiste nel riscoprire ciò che si faceva molte migliaia di anni fa e si trattava di utilizzare l’ambiente per creare bevande gustose o medicinali. L’idea di utilizzare semplicemente luppolo, cereali e acqua è in realtà abbastanza nuova nella storia della birra.

Se studi le birre antiche, ti renderai conto che i nostri antenati non erano timidi nell’usare piante con varie fonti di zucchero. Alcune antiche birre mescolavano cereali, miele, melassa e frutta come fonte di zucchero. Non possono essere classificati in categorie facili. E penso che sia bella, la birra selvaggia ti permette di riconnetterti con i tuoi antenati, scoprire sapori antichi e non-civilizzati che non si possono acquistare da nessuna parte. È un viaggio nel tempo, fa parte del nostro DNA come esseri umani.

 

Che tipo di consiglio daresti ad un birraio curioso privo di conoscenze botaniche precedenti e desidera iniziare a utilizzare piante da foraging nella sperimentazione birraria?

Se sei addentro all’argomento birra, scoprire le piante di base che i nostri antenati usavano per la produzione della birra prima dell’uso del luppolo (o con l’uso del luppolo) non è così complesso, visto anche che non sono molte – stiamo parlando di achillea (Achillea millefolium), artemisia (Artemisiasp.) e altre piante amare/aromatiche come il marrubio (Marrubiumvulgaris), assenzio (Artemisia absinthium) e così via.

Una volta che hai conosciuto le piante di base e il loro sapore principale, puoi essere veramente creativo e iniziare ad aggiungere radici, cortecce, frutti, bacche, funghi e innumerevoli altri ingredienti per creare intrugli fermentati unici. Non sto cercando di vendere il mio libro ma c’è un intero capitolo che spiega tutte le varie categorie di piante che possono essere utilizzate per la produzione della birra e anche dopo aver passato mesi nella ricerca sull’argomento, posso dirti che è ancora incompleto e che continuo a trovare altre informazioni col passare del tempo.

Il wild brewing non riguarda solo i sapori della terra e un momento nel tempo, a livello personale è anche emotivo. Bere un sorso può ricordarti la bellezza della foresta quella mattina, come ti sei sentito, la temperatura. C’è una parte di te in essa.

Ma come ho detto … inizia il giorno 1. Prendi dell’artemisia selvatica o acquistata e, se sei un birraio, sostituisci quella pianta al solito luppolo e guarda cosa succede. Assaggia e lavora a partire da lì. Una semplice ricerca online per “piante utilizzate per la produzione di birra” può fornire tonnellate di informazioni.

Inoltre, non possiamo dimenticare che la produzione di birra non era solo legata ai sapori, ma esiste anche una lunga tradizione di produzione brassicola a scopo medico e sciamanico.

 

 

 

Possiamo immaginare una sorta di New Deal tra birrai e botanici nei prossimi anni?

Non sono sicuro di aver capito la domanda. Ma ho visto associazioni di birrai e forager. Questi ultimi portano avanti l’antica tradizione di utilizzare le piante spontanee per scopi alimentari o medicinali. Detto questo, anche i botanici sono estremamente utili con la loro vasta conoscenza delle piante, di come identificarle e codificarle correttamente: botanico e forager possono formare una grande squadra al servizio del birraio.

 

Siamo entrambi consapevoli, suppongo, di quanto sia importante un’affidabile identificazione delle piante. Tuttavia, non posso evitare di notare che i nomi scientifici corretti sono sempre dati nei tuoi libri, mentre molti scrittori di birra di livello mondiale (sfortunatamente più esperti nella produzione di birra che nella scienza delle piante) normalmente usano nomi comuni di piante, e anche quando c’è qualche timido tentativo di applicazione dei nomi scientifici la maggior parte di questi sono scritti erroneamente. Perché è così importante, nella tua esperienza, usare i nomi latini delle piante? È solo un problema di sterile ortodossia nomenclaturale formale o ci sono anche ragioni pratiche per preferire i binomi scientifici?

I nomi scientifici o quelli che chiamo latini sono un must in un libro perché i nomi comuni possono introdurre così tanti errori. Ad esempio, a livello locale potremmo avere 10 piante diverse chiamate “indianlettuce”, senza il nome scientifico appropriato, che è unico per ogni pianta, è quasi impossibile fare una ricerca adeguata.

Aiuta anche quando insegni in un paese diverso. Il dente di leone, usato come agente amaricante nella produzione della birra, diventa pissenlit in Belgio o in Francia, ma entrambi sono in realtà Taraxacum.

Personalmente, non sono un fan dei nomi scientifici e uso sia nomi comuni che latini nelle mie lezioni, ma devo ammettere che è un must per identificare correttamente le piante.

Ma ancora non chiamo la mia birra di artemisia “Artemisia CalifornicaBeer”J.

 

Una battuta spiritosa di Pascal Baudar! Beh, non me l’aspettavo, devo ammetterlo. La cosa mi fa molto piacere perché prova di una certa confidenza, di quella complicità che non sempre si instaura tra intervistato ed intervistatore quando si parla di argomenti tecnici. Tuttavia, non posso fare a meno di cogliere anche una minima residua resistenza all’uso dei nomi scientifici, pur nel riconoscerne gli indubbi vantaggi. Allora spendo due parole per chiarire meglio la mia posizione, come botanico e come consumatore, cogliendo l’opportunità offerta da Pascal con la sua provvidenziale battuta. Ovviamente, il nome scientifico va attribuito alla pianta non alla birra. Il nome della birra può avere o meno un riferimento alle piante più caratteristiche usate come ingredienti. Dipende dal birraio, ma va da sé che anche il solo nome comune può essere più che sufficiente. E quindi nel caso della birra di Pascal contenente Artemisia californica avrebbe potuto essere California Mugwort Ale, sebbene questo assomigli più al nome di un futuribile stile birrario BJCP che non di una singola birra! Quello che invece ritengo più importante nell’interesse del consumatore è che il riferimento a ciascun ingrediente usato in una determinata birra sia rigorosamente fatto in etichetta per mezzo del nome scientifico. Così, non c’è neanche bisogno di tradurre i nomi degli ingredienti se la birra viene esportata in Paesi con lingue diverse.

 

I tuoi libri, così come il tuo sito web e i profili Instagram e Facebook, sono accompagnati da splendide fotografie che sicuramente contribuiscono a valorizzare la tua ricerca. Conoscendo perfettamente la tua precedente attività di fotografo professionista, vorrei chiederti se fai foto da solo e, in questo caso, che tipo di dispositivi e tecniche usi per registrare le tue ricette?

Faccio le mie foto ma non uso proprio nessuna attrezzatura e solo la luce del giorno. Rideresti se vedessi il mio studio fotografico: sono fondamentalmente due assi fuori casa mia.L’unico ritocco che mi concedo è la correzione dei colori, così tornano come li percepisco io.Le fotocamere non sono ancora perfette.La mia è una Nikon D3500, nemmeno considerata una fotocamera professionale e utilizzo un obiettivo Nikon 18-140mm. Le fotocamere sono uno strumento utile ma non scattano foto, lo fa il fotografo. Quindi, se sei un buon fotografo con una comprensione decente dell’illuminazione, non è così importante quale sia la tua fotocamera. Sarai comunque in grado di scattare splendide foto con il tuo iPhone.Inoltre, non sono molto bravo a passare il tempo a preparare i miei scatti e a rendere tutto bello, quindi c’è pochissimo lavoro da fare per impiattarei miei piatti, la Natura fa il lavoro per me e spesso finisce per essere bello.Quindi… fotocamera economica, 2 assi, luce diurna ed estetica della natura.

 

Anche Urban Outdoor Skills (www.urbanoutdoorskills.com) è un progetto a lungo termine che coinvolge le persone nelle tue lezioni. Nelle tue classi, quanto tempo viene dedicato alle nozioni teoriche e quanto sviluppare l’abilità pratica e manuale attraverso un approccio learning-by-doing? Porti gruppi in escursioni botaniche (o, come le chiami graziosamente, passeggiate vegetali) per cercare cibo per le tue successive attività di laboratorio?

Faccio passeggiate vegetali, degustazioni e laboratori. Le passeggiate sulle piante sono semplicissime, passiamo solo un’ora a guardare le piante commestibili o medicinali locali. Molto spesso, non camminiamo nemmeno per più di 100 metri perché, in realtà, la natura è incredibile e l’80% delle piante che ti circondano ha degli usi culinari. Anche un’ora è perfetta; potremmo parlare di 20 piante che è già travolgente se sei nuovo dell’argomento, quindi dico sempre alle persone di scegliere solo 3 piante che vogliono ricordare il giorno successivo.

Dopo la passeggiata, torniamo al luogo di partenza e prepariamo il cibo utilizzando le piante che abbiamo incontrato quel giorno. Molti piatti sono già preparati da me, quindi non è insolito avere 15 diversi piatti e bevande da degustare. Molte persone vengono a questo tipo di lezioni solo per il cibo.I miei seminari sono un po’ più elaborati ed è per le persone che vogliono veramente approfondire e imparare a usare quelle piante in modi specifici. È lì che insegno a fare birra, fermentazione lattica di commestibili selvatici, come fare l’aceto da zero e così via … È molto pratico e spesso ogni studente torna a casa con la propria creazione a base di cibo selvatico locale.

 

 

Sul suo sito web ho trovato alcune interessanti informazioni sulla recente idea di promuovere, attraverso il lavoro di raccoglitore-trasformatore e istruttore, l’iper-sfruttamento di popolazioni vegetali aliene, in particolare quelle invasive, ottenendo così la valorizzazione di una materia prima disponibile e, allo stesso tempo, la riduzione della pressione delle infestanti sull’ambiente. Questo sembra derivare dalla sua consapevolezza dell’equilibrio dell’ecosistema e del ruolo negativo degli organismi alieni negli habitat naturali, e anche dalla tua capacità visionaria di trovare una soluzione pratica. Ci può dire di più su questo progetto?

Vivendo a Los Angeles, direi che il 90% delle piante che raccolgo non sono autoctone e alcune sono considerate invasive. Ed è probabilmente vero per qualsiasi grande città. Non raccolgo le mie piante all’interno della città stessa (per via dell’inquinamento) ma nelle aree naturali che la circondano e spesso su proprietà private.

Molte di queste piante “invasive” sono piante coltivate in diversi paesi. Ad esempio, le nostre colline locali sono cariche di senape nera (Brassica nigra) che viene coltivata in India, Etiopia e altri paesi come spezia. Pianta all’origine del nostro moderno condimento alla senape, i Romani mettevano i semi sottaceto e nel Medioevo veniva utilizzata in Europa per realizzare il condimento che oggi possiamo acquistare al negozio. Ogni parte della pianta, dalle radici ai semi, può essere utilizzata per creare cibo gourmet.

 

Le soluzioni locali per affrontare queste piante invasive, e ne abbiamo migliaia di acri, consistono essenzialmente nello spruzzare erbicidi dannosi per l’ambiente o di “ripristinare l’habitat”, il che significa rimuovere e buttare via quelle piante.Dal mio punto di vista, non ha molto senso… perché stiamo buttando via una fonte di cibo utile, nutriente e gourmet quando ci sono persone che non possono permettersi cibo decente a Los Angeles.E questo è vero per molte altre piante. Voglio dire, i giardinieri della città spruzzano sostanze chimiche sul dente di leone nei parchi cittadini, ma nel frattempo si devono pagare 3$ per comprarne una piccola quantità in un negozio di alimentari di fascia alta.

Dobbiamo ripensare l’intero sistema. A questo punto della mia vita e con le conoscenze che ho accumulato, posso affermare con certezza che il più grande spreco alimentare a livello locale è il cibo selvatico non autoctono. Invece inquiniamo l’ambiente con diserbanti cercando di liberarcene o sprechiamo la risorsa. Non ha senso.

Quindi una parte importante del mio lavoro è creare gustose ricette (compresa la preparazione della birra) in modo che le persone possano effettivamente utilizzare quelle piante indesiderate e renderle parte della loro dieta. A tal fine, utilizzo anche molte tecniche tradizionali di conservazione degli alimenti come la fermentazione lattica e così via.

E a proposito, foraging o wildcrafting, non si tratta solo di raccogliere piante. Direi che forse il 10-15% del mio tempo è raccogliere piante. Il resto riguarda la conservazione degli alimenti usando fermentazione, inscatolamento, decapaggio (mettere sottaceto, in salamoia), congelamento, disidratazione, brassaggio e così via. Niente di nuovo in realtà, questo è ciò che facevano le persone che avevano un giardino con il raccolto. Quando ero bambino avevamo un enorme giardino e preservare il raccolto era un’attività di famiglia. Fare vino, birre e altri intrugli alcolici fa anche parte di quella tradizione di conservazione del cibo.

 

Perché la California del sud come campo base? Forse a causa dell’enorme fitodiversità disponibile da quelle parti?

Era un buon posto per fare il grafico: Hollywood è vicina e l’industria del cinema e della moda faceva parte dei miei affari. Ma sì, la fitodiversità a livello locale è davvero fantastica, quindi è diventato il mio campo base.

Detto questo, probabilmente mi trasferirò presto.

 

 

Personalmente, considero il tuo lavoro di ricerca non solo un modo tecnico per sfruttare le piante selvatiche, ma almeno uno dei nuovi modi sostenibili di avvicinarsi alla Natura. Credo fermamente che i tuoi sforzi siano l’avanguardia di una nuova possibile frontiera nel rapporto Uomo-Natura. Lasciami dire che penso che il tuo libro The WildcraftingBrewer, che presenti nel tuo sito web con le seguenti parole “… attirerà herbalist, foragers, natural-foodies e chef con la stessa filosofia giocosa e rilassata dell’autore.” è, a mio avviso, assolutamente rivoluzionario, destinato a offrire un contributo molto importante al mondo della birra, e non solo limitato all’homebrewing, ma capace di influenzare a lungo termine anche la produzione artigianale e forse anche quella industriale. Sei d’accordo?

Come ho detto prima, dobbiamo ripensare il nostro intero approccio ecologico. È la prima volta che lo dico in una pubblicazione, ma francamente, stiamo lentamente ma efficacemente distruggendo questo pianeta.Dalla pubblicazione del mio libro The WildcraftingBrewer nel 2018, ho probabilmente perso 15 miglia di terreno di foraging (per le specie invasive) a causa dell’espansione urbana, dell’inquinamento, dell’uso di sostanze chimiche dannose e di questioni sociali.

La foresta che ho usato in quel libro per raccogliere i miei ingredienti è praticamente scomparsa a questo punto. È stata irrorata con un’enorme quantità di glifosato e altri erbicidi per rimuovere le piante invasive, ma questo ha finito con l’influenzare quelle native. Ora abbiamo diversi campi per senzatetto, che sono davvero legati un fenomeno legato all’espansione della città ed alle ingiustizie sociali. La spazzatura è dappertutto. Ora è una discarica tossica, dal mio punto di vista, e questo è successo in soli 3 anni. Non potrei nemmeno prendere in considerazione l’idea di raccogliere piante in quel posto, eppure era piuttosto incontaminato alcuni anni fa.

Dobbiamo ripensare il nostro rapporto con la terra, come ci colleghiamo con essa e dobbiamo impegnarci a trovare soluzioni creative positive. Le “soluzioni” ecologiche inventate localmente dagli “esperti” si stanno effettivamente aggiungendo ai problemi e alla distruzione.

Dal mio punto di vista, il cibo può essere parte delle soluzioni offerte ed è molto più vantaggioso che spruzzare sostanze chimiche o sprecare le risorse. Possiamo essere migliori di così.

Ma so che le mie attività non incidono sull’affrontare questi problemi, non posso certo risolverli da solo, quindi il mio lavoro principale è davvero piantare “semi” nella testa delle persone, mostrare loro le possibilità creative, le soluzioni positive, farli pensare a modi nuovi per collaborare con l’ambiente e persino aiutarlo. Non è troppo tardi ma dobbiamo davvero pensare a soluzioni positive e sì, il wildcrafting, praticato correttamente può essere parte di quelle soluzioni, anche se è una piccola parte.Come trasformare le piante indesiderate in cibo gourmet, nutrire le persone, consentire alle persone di raccogliere cibo biologico ed essere liberi dal sistema alimentare moderno che, francamente, negli Stati Uniti, è tutt’altro che salutare.

Anche la birra può essere usata come uno strumento, uso molte piante non autoctone nella mia produzione di birra come marrubio, radici di tarassaco e così via.

 

Quindi invece di inquinare o sprecare le risorse… have a drink!

 

L’entità e la gravità della crisi ecologica che sta attraversando la biosfera di questo nostro piccolo pianeta implica improrogabilmente che ogni cittadino si faccia carico consapevolmente della sua parte di responsabilità individuale per contribuire ad alleviare i problemi che rischiano di travolgere la civiltà umana come la conosciamo. Tale responsabilità non può essere demandata esclusivamente a chi si occupa professionalmente di ambiente o organismi viventi, ma deve avere una corrispondenza sempre più significativa nell’attività quotidiana di ciascun cittadino. E ciò comporta possedere diffuse e dettagliate conoscenze biologiche ed ecologiche, chiare competenze sui comportamenti virtuosi da adottare e piena consapevolezza del proprio impatto sulla biosfera.

Come botanico ed ecologo, posso semplicemente ed umilmente esprimere la mia più profonda ammirazione per la lucida consapevolezza grazie alla quale Pascal Baudar è stato capace, sulla base delle sue conoscenze e di una enciclopedica esperienza, di tramutare un problema (le piante esotiche invasive) in preziosa risorsa, materia prima per deliziosi manicaretti, sorprendenti conserve, incredibili birre ed altri fermentati.

Tutta la mia ammirazione va a quest’uomo che vive consapevolmente il suo tempo ed i problemi che affliggono la nostra contemporaneità, riuscendo a formulare risposte concrete nei comportamenti quotidiani… un obiettivo apparentemente irraggiungibile per molti di noi… trasformato come per incanto in uno scenario nel campo del possibile.

I progetti di eradicazione, anche quando esercitati meccanicamente o addirittura manualmente, implicano una serie di interventi ripetuti nel tempo che conducano al definitivo esaurimento della seed-bank che nel frattempo si è accumulata nel terreno. Bastano pochi individui superstiti, va ribadito, per inficiare anni di lavoro. Il più delle volte tale defatigante attività sul campo viene esercitata da volontari che con infinita pazienza eliminano una ad una le piante invasive. Per questo l’idea di Pascal è assai interessante. Chiunque viva in un determinato posto, con una regolare attività di foraging concentrato sulle specie invasive può contribuire a rimuovere le specie aliene da quell’ambiente. Come dire che curare il pianeta evidentemente eccede le forze dei singoli, ma i singoli possono dare un contributo assai significativo.

 

Insomma, la grande lezione di Pascal Baudar è lì, a portata di mano. Richiama ciascuno di noi alle nostre responsabilità. Nessuno può legittimamente sentirsi esonerato dal dover contribuire a ristabilire condizioni di naturalità nei territori in cui viviamo. E se questo vale per i singoli cittadini, vale senz’altro per il mondo della gastronomia, e di sicuro anche per quello della birra. Il pianeta ringrazia e pure noi. Thankyou Mr. Baudar

 

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Giuseppe Caruso
Info autore

Giuseppe Caruso

Docente di Botanica Forestale presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, nonché insegnante di Scienze Naturali e Biotecnologie Agrarie presso l’Istituto Tecnico Agrario “Vittorio Emanuele II” di Catanzaro, botanico (consulente scientifico per enti pubblici, privati, professionisti), disegnatore botanico, beerlover, beer sommelier.
Diploma di Perito Agrario presso l’Istituto Tecnico Agrario “Vittorio Emanuele II” di Catanzaro, Laurea in Scienze Agrarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, Dottorato di Ricerca in Botanica Ambientale ed Applicata presso l’Università Politecnica delle Marche di Ancona.
Membro di diverse associazioni scientifiche: Organization for Phyto-Taxonomic Investigation of the Mediterranean Area, Società Botanica Italiana, Società Italiana di Scienze della Vegetazione, Società Italiana di Biogeografia, Society for Economic Botany, International Biogeography Society.
Pubblicate numerose ricerche scientifiche sulla flora dell’Italia Meridionale nei campi della tassonomia vegetale, floristica, vegetazione, conservazione, museologia, didattica e divulgazione scientifica. Principali interessi scientifici: ricerca botanica (tassonomia vegetale, floristica, vegetazione), analisi fitogeografico-vegetazionale (metodo fitosociologico e geosinfitosociologico dinamico-catenale), ecologia vegetale, conservazione e valorizzazione delle risorse naturali, recupero aree degradate e gestione verde urbano, sentieristica naturalistica, analisi/planning dei processi formativi, outdoor environmental education.
Libri pubblicati: Guida al riconoscimento di alberi, arbusti, cespugli e liane del PN della Sila (PN Sila, 2011), Andar per piante tra terra e mare – Escursioni botaniche sulle coste della Calabria (Koeltz Scientific Books, 2015). Nell’ultimo libro, La Botanica della Birra (Slow Food Editore, 2019), frutto di un lunghissimo lavoro di documentazione, unisce due grandi passioni, la botanica e la birra, raccontando con rigore scientifico le proprietà brassicole di oltre 500 specie vegetali impiegate nel brassaggio. Lo stesso libro è stato tradotto in inglese e pubblicato nel 2022 come The Botany of Beer dalla Columbia University Press (New York, US).