Numero 39/2020

24 Settembre 2020

Antipode brewing

Antipode brewing

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La Nuova Zelanda, nell’immaginario collettivo europeo è l’altrove per antonomasia. Il distante, il diverso, l’antipodiale. Possiamo solo immaginare come si sentissero estraniati dal luogo i primi viaggiatori europei che vi misero piede. Il navigatore olandese Abel Tasman, proveniente proprio da quella Tasmania cui avrebbe prestato il nome, e di cui aveva appena preso formalmente possesso per conto della Compagnia delle Indie Orientali, aveva tutta l’intenzione di dirigersi a nord, ma il vento contrario lo costrinse a veleggiare verso est. Fu per questa circostanza che, del tutto fortuitamente, lo sguardo europeo per la prima volta ha potuto dare un’occhiata alla costa di quella che oggi conosciamo come Nuova Zelanda. Era il 13 dicembre 1642 e quella avvistata era la costa occidentale dell’Isola Sud. Navigando ancora verso est e verso nord Tasman percorse tutta la costa occidentale dell’Isola Nord della Nuova Zelanda, senza tuttavia riuscire mai a toccare terra, subendo inoltre un violento attacco (e diverse perdite umane) per mano di alcuni Māori a bordo delle loro canoe di guerra. Il grande esploratore inglese James Cook aveva completamente cartografato le coste delle due isole maggiori della Nuova Zelanda nel corso del suo primo viaggio intorno al mondo, quello per intenderci, durante il qualche scoprì e cartografò la costa orientale dell’Australia ed andò anche molto vicino al naufragio schiantando l’Endeavour contro un banco corallino sommerso della Grande Barriera Corallina. Durante il suo secondo viaggio, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza con le due navi al suo comando, la Resolution e la Adventure, quest’ultima capitanata da Tobias Furneaux, si spinse fin dove nessun navigatore europeo era mai stato, oltre il circolo polare antartico, raggiungendo l’incredibile latitudine 71°10′ Sud. Nelle nebbie dell’Antartico le due navi ad un certo punto si ritrovarono separate. Avendo previsto questa eventualità e vista la conseguente impossibilità di comunicare a distanza, Cook aveva dato disposizioni di incontrarsi nel Queen Charlotte Sound, un’ampia baia protetta incuneata nella costa settentrionale dell’Isola Sud della Nuova Zelanda, proprio di fronte all’odierno Stretto di Cook.

Già nel corso del suo primo viaggio, Cook aveva combattuto con successo la più grave malattia che colpisse allora i naviganti transoceanici, lo scorbuto, costringendo l’equipaggio a nutrirsi di alimenti freschi, in particolare quelli vegetali. La vitamina C contenuta in tali alimenti preveniva efficacemente la grave avitaminosi che solitamente decimava gli equipaggi. In realtà, Cook non perdeva alcuna occasione di somministrare, nelle forme più improbabili, vegetali freschi al suo equipaggio. Uno dei suoi stratagemmi consisteva nel promuovere il consumo di ale brassate con sciroppo di malto, melassa e giovani apici di conifere rinvenute localmente, lungo le coste delle terre visitate. Quelle che più tardi sarebbero state codificate come Spruce Ale (o Spruce Beer), così denominate perché brassate con apici di Picea sitchensis (Pinaceae) sulla costa pacifica del nord America, altrove erano intrugli alcolici del tutto simili, ma brassate con quanto di volta in volta la flora locale poteva offrire. Sabato 27 marzo 1773 Cook, la Resolution ed un equipaggio di oltre 100 marinai veleggiavano nel profondo Dusky Sound, all’estremità sud-occidentale dell’Isola Sud della Nuova Zelanda dopo aver percorso 11 mila miglia nautiche e trascorso 117 giorni nei mari australi senza aver mai toccato terra. È con un certo sollievo, possiamo supporre, che trovata un’area adatta sbarcarono, ripulirono l’area dalla vegetazione e si dedicarono a caccia e pesca per rifornirsi di cibo fresco. Dallo stesso diario di bordo del comandante risulta che altri marinai, invece, si applicarono nel brassaggio di una birra a base di mosto di malto, melassa e foglie e cortecce di rimu, una conifera arborea della famiglia delle Podocarpaceae, endemica della Nuova Zelanda e oggi nota alla scienza come Dacrydium cupressinum Sol. ex Lamb.. La fermentazione veniva attivata addizionando un po’ di birra tenuta a bordo o con il residuo della fermentazione precedente. È l’atto di nascita della birra degli antipodi, la prima mai brassata sul suolo neozelandese. È anche accertato che nei giorni successivi, altri esperimenti brassicoli ebbero luogo sul suolo neozelandese per mano dei creativi birrai al comando di Cook. Per stemperare l’astringenza del rimu addizionarono un altro ingrediente vegetale fornito dall’ambiente circostante, il manuka. Si trattava del Leptospermum scoparium J.R.Forst. & G.Forst. (Myrtaceae), un arbusto o alberello subendemico di Australia e Nuova Zelanda. Rifocillata dal cibo fresco e dalla prima birra Made in New Zealand la compagine della Resolution riprese il mare per dirigersi al rendez-vous con la Adventure. Furneaux, dopo qualche scontro con i Māori, che fra l’altro costò la vita di una decina dei suoi uomini, condusse l’Adventure nel punto concordato il 7 maggio 1773. La Resolution raggiunse il Queen Charlotte Sound 10 giorni più tardi. Da lì le due navi continuarono l’esplorazione del Pacifico meridionale.
Oggi la società neozelandese rivendica con altrettanto orgoglio e consapevolezza tanto le proprie origini maori, quanto quelle inglesi. E non ci sono molti dubbi sul fatto che uno dei tratti più anglofili dell’odierna Nuova Zelanda sia proprio la considerevole tradizione brassicola che è oggi possibile riscontrare nel paese. Ed il riferimento non è circoscritto ai soli birrifici, od anche alla diffusissima pratica dell’homebrewing, ma anche alla produzione di materie prime di qualità, personalità, originalità tali da conquistare fama e mercati di dimensione internazionale. Un caso da manuale è il distretto del luppolo di Nelson, nel nord dell’Isola del Sud, della Nuova Zelanda.

L’universo brassicolo neozelandese moderno, immortalato dal delizioso, ed oggi pressoché introvabile, volume The Story of Beer – Beer and Brewing – a New Zealand history di Gordon McLauchlan, è andato incontro, come è normale aspettarsi, ad un continuo processo di evoluzione, volto a seguire il cambiamento dei gusti dei consumatori, ma anche alla sperimentazione di nuove originali strade, permettendo ai nuovi esperimenti di distinguersi dal resto del panorama brassicolo nazionale. Un interessante esempio in tal senso è sicuramente il lavoro che sta portando avanti Brayden Rawlinson, head brewer del brewpub Choice Bros Brewing, un delizioso locale situato proprio nel centro della capitale neozelandese, Wellington. Fondato nel 2016 ed acquisito nel 2019 dal Yu Group Ltd. quale parte del proprio portfolio di ospitalità (Yu Group – Hospitality Group), il Choice Bros Brewing è parte integrante della ricca offerta mondana della città-capitale degli antipodi.

 

 

Brayden Rawlinson può vantare una solida formazione accademica in Orticoltura, ma sta anche completando la sua istruzione formale specifica sul brassaggio, essendo prossimo al conseguimento del prestigioso diploma IBD (Institute of Brewing and Distilling). Quello che più conta è che Brayden, mentre lavorava nel corso degli anni nella gestione di superfici erbose destinate ad attività sportive, mentre si dedicava ad attività afferenti all’orticoltura ed alla viticultura, si impegnava, già a partire dal 2003, all’homebrewing all-grain sempre potendo contare, in questo interesse sul brassaggio, sul sostegno della sua famiglia d’origine, come oggi può contare sul sostegno della propria partner.

Ciao Brayden, grazie tante per aver accettato di incontrare me ed il Giornale della Birra. Una prima domanda sul tuo percorso di consumatore. In quali circostanze, proprio in qualità di consumatore, hai cominciato a dimostrare interesse per la birra artigianale a dispetto delle lager industriali?
L’incontro fatale si è verificato quando ho bevuto per la prima volta una Tuatara Ardennes, un brand rilasciato dal noto produttore di birra artigianale neozelandese, Tuatara, a metà degli anni 2000. Questo incontro ha radicalmente cambiato le mie abitudini nel bere e ha anche fatto nascere il mio amore, ormai di vecchia data, per le birre belghe (specialmente le Trappiste), per quelle francesi e, più recentemente, Lambic e spontanee.

 

 

Siamo molto curiosi di saperne di più sull’odierna scena birraria neozelandese? Puoi spiegare brevemente ai nostri lettori la geografia del network brassicolo della Nuova Zelanda e il ruolo attuale della birra nell’economia nazionale?
La scena della birra artigianale in Nuova Zelanda è interessante, poiché è piuttosto recente (20-40 anni) e non abbiamo davvero avuto la possibilità di definirci sulla scena mondiale. Seguiamo costantemente le tendenze, principalmente quelle stabilite dagli Stati Uniti (Hazy, NEIPA, Brut IPA). Viviamo in un mondo in cui le informazioni sono così accessibili, soprattutto attraverso mezzi come i social media: quando un noto birrificio americano produce una nuova tendenza, di solito non siamo molto indietro. Tuttavia, sento che abbiamo i migliori luppoli del mondo, quindi produciamo alcuni stili di birra NZ-Hop davvero unici come NZ Pale Ale e NZIPA. Il settore della birra artigianale in Nuova Zelanda cresce costantemente ogni anno.

Come ho scritto nelle note introduttive, la Nuova Zelanda ha una storia molto lunga di produzione di birra, che fa parte dell’eredità della colonizzazione inglese. Possiamo ipotizzare che queste radici profonde siano piantate in un forte sistema educativo specificamente dedicato a insegnare agricoltura, produzione e commercializzazione della birra sia a livello di scuola secondaria che a livello universitario?
L’industria primaria della Nuova Zelanda è l’agricoltura, con in testa la zootecnia per la produzione di carne (manzo e agnello) e i latticini. Anche la viticoltura (vino) è ora un’industria da miliardi di dollari. L’agricoltura e l’orticoltura sono insegnate come materie non obbligatorie al liceo, quindi il sistema educativo rispetto a queste materie, in altre parole, è del tutto facoltativo.

 

Qualche anno fa la legge italiana ha ben definito le regole per distinguere chiaramente la birra artigianale da quella industriale. Ciò significa niente pastorizzazione, niente microfiltrazione, produzione annua non superiore a 200mila ettolitri e indipendenza finanziaria del birrificio artigianale dai grandi gruppi. Cosa ci puoi dire a proposito delle norme neozelandesi sulla birra artigianale?
Non esiste una definizione legale per la birra artigianale in Nuova Zelanda. Abbiamo produttori qui, che sono stati acquisiti da colossi del calibro di Heineken-DB, come Tuatara, che producono oltre 2.500.000 litri di birra all’anno ma sono ancora considerati artigianali.

Questa è una notizia sorprendente, dal mio punto di vista. E l’homebrewing come è regolamentato?
La produzione di birra fatta in casa non è controllata ed è completamente legale in Nuova Zelanda, se la produci per il tuo consumo personale. È quando provi a vendere o approfittare della produzione di birra fatta in casa che tale attività diventa illegale.

 

 

Come sei arrivato alla birra professionale?
Senza girarci troppo intorno, mi sono trasferito in Australia nel 2015 per ricominciare da capo dopo essere uscito da una precedente relazione matrimoniale. Ho lasciato tutto alle spalle, compresi i miei 10 anni di carriera nella gestione del verde (prati per attività sportiva), per seguire il sogno di diventare un birraio professionista e il momento sembrava giusto perché non avevo più obblighi finanziari per il mutuo dopo aver venduto la mia casa a seguito del divorzio. Prima di allora mi ero dilettato nella produzione di birra a contratto in piccoli lotti e sapevo che c’era una certa validità nella mia folle ambizione, quindi ci ho provato. Ho fatto molta strada nei miei 5 anni come birraio professionista e c’è ancora così tanto da vedere e da imparare, non solo in Nuova Zelanda, ma anche nel mondo. Da quando ho iniziato la mia carriera nel settore della birra ho lavorato in Australia, Nuova Zelanda e ho anche lavorato per un breve periodo presso Birra del Borgo in Italia.
Prima di incontrare Choice Bros nell’ottobre 2019, ero già head brewer di Tuatara, uno dei birrifici artigianali più conosciuti e di lunga data della Nuova Zelanda. Sono cresciuto sulla costa di Kapiti, non troppo lontano dalla fabbrica originaria di Tuatara Brewing, sulle colline dell’Akatarawa dietro Waikanae. È un pensiero romantico considerare che 15 anni dopo aver ricevuto il grano da Tuatara nei miei primi giorni della mia birra fatta in casa (~ 2003) e aver ampliato i miei orizzonti brassicoli dopo aver bevuto una Tuatara Ardennes a metà degli anni 2000 come menzionato in precedenza, sono diventato il loro Head Brewer nel 2018. Ho letteralmente chiuso il cerchio.

Qual è la filosofia che ispira Choice Bros Brewing e come vengono progettate le nuove birre?
Choice Bros è uno sbocco creativo per me. Penso costantemente e formulo nuove ricette e idee per le birre – birre che non aspetterò mai di proporre nell’ambito del mio progetto collaterale: NINEBARNYARDOWLS, per la loro natura “convenzionale”. Questo lavoro mi tiene occupato e costantemente in allerta: devi mantenere quella mentalità se vuoi rimanere adeguato in questo settore frenetico.

 

Quali sono le birre più rappresentative del birrificio? Puoi descriverci quelle più intriganti?
Abbiamo una Hazy XPA al 4,5% chiamata Puppet Dancer, su cui abbiamo lavorato molto ultimamente. È una rielaborazione di un prodotto originale di Choice Bros che sta migliorando sempre di più ad ogni batch mentre modifichiamo determinati parametri. È una delle sei nuove birre che rilasceremo come parte della nostra nuova “gamma principale” rinnovata nei prossimi mesi, quindi rimanete sintonizzati!

Brayden, ho imparato che la tua vita è un po’ come quella del dottor Jekyll e Mr. Hyde, divisa tra il lavoro “ufficiale” alla Choice Bros Brewing e la sperimentazione radicale di NINEBARNYARDOWLS. Vuoi parlarci di questo progetto?
Con molto piacere! Intanto ti dico che NINEBARNYARDOWLS è l’anagramma di Brayden Rawlinson. Oltre ad essere un birraio “convenzionale” professionista a tempo pieno, nel mio tempo libero lavoro anche per perfezionare l’arte della fermentazione spontanea e delle wild ales. Per me, queste birre sono una vera espressione del terroir – un termine che alcuni potrebbero ritenere sia meglio riservare ai vini, e non alla birra. Ho iniziato questo viaggio nel 2017 quando ho acquisito una piccola parte del capannone dei miei genitori nel loro ex vigneto a Gladstone, per avviare questo progetto. Gladstone si trova nel Wairarapa, una bellissima area rurale della Nuova Zelanda, situata 90 minuti a nord est della capitale, Wellington. Gladstone fa parte della regione vinicola di Greater Wellington che comprende anche la più nota regione di Martinborough, situata a 30-40 minuti a sud. È a Martinborough che produco il mio mosto e lo trasporto su un rimorchio a Gladstone, dove viene pompato in una coolship in attesa di essere inoculato dalla microflora e dai batteri autoctoni durante la notte. Dopo 24 ore il mosto, ora inoculato, viene trasferito nelle botti che sono stati acquistati dalle cantine vicine, ed inizia il suo viaggio maratona di oltre 24 mesi per diventare una buona (si spera) ale spontanea/selvaggia. Amo il mistero e il romanticismo che avvolge questo stile di produzione della birra.

 

E la tua passione inarrestabile per la birra spericolata ti ha portato anche in Australia. Ritieni che l’esperienza australiana abbia influenzato in modo significativo il tuo approccio alla produzione della birra?
Decisamente! Mentre facevo birra alla NOMAD Brewing sulle spiagge settentrionali di Sydney, ho imparato a utilizzare ingredienti autoctoni. Inoltre, quella esperienza e mi ha aiutato ad espandere ulteriormente il mio già crescente bagaglio di abilità nel settore della birra. Molte delle birre che abbiamo prodotto alla NOMAD incorporavano uno (o più) ingredienti nativi australiani nella loro ricetta. Questo è stato rafforzato anche da Birra del Borgo di Borgorose, a un livello completamente nuovo: passare le giornate con i birrai a cercare ingredienti nativi in montagna da utilizzare in birre divertenti ed eccitanti, raccogliere fiori, punte di foglie e rami per affumicare il malto e filtrare il mosto. – le opzioni erano apparentemente infinite! Ho riportato quella mentalità in Nuova Zelanda, dove ho iniziato ad esplorare la teoria sull’utilizzo di ciò che era a mia disposizione per quanto riguarda gli ingredienti nativi, e anche facendo un ulteriore passo avanti e utilizzando anche il lievito selvatico nelle mie birre.

Sei già stato in Italia e hai intenzione di tornare. Quali sono gli scopi dei tuoi viaggi in Italia, solo turismo o coinvolgono anche il tuo lavoro di birraio e viticoltore?
Spero un giorno di tornare in Italia, in un futuro non troppo lontano, e riprendere da dove avevo interrotto. Vorrei anche fare uno o due vendemmie in Italia e migliorare ulteriormente il mio apprendimento della lingua, cosa con cui francamente faccio fatica anche perché non riesco a usarla spesso qui in Nuova Zelanda! Sono affascinato dal cibo, dalla birra e dal vino italiani e riesco a vedere molti parallelismi tra di loro.

 

 

So che coltivi anche la vite. Quale vitigno coltivi e che uso fai dell’uva, la vinifichi o produci Italian Grape Ale?
È corretto! Coltivo il mio Montepulciano nella fattoria dei miei genitori: ci sono solo 13 viti, ma è sufficiente per produrre oltre 100 kg di uva di qualità da utilizzare nelle mie birre ogni anno. Sono diventato ossessionato da questa varietà quando ero in Italia e volevo usare quel particolare vitigno in birre a fermentazione spontanea, quindi ne ho coltivato un po’. Le viti sono state piantate a novembre 2017 e da allora sono state prolifiche produttrici di uva ogni anno. È facile accedere ad altri vitigni ben noti dai vigneti circostanti, quindi non aveva senso coltivare Chardonnay o Pinot Nero, pertanto Montepulciano sembrava la scelta più ovvia! Ho intenzione di piantare varietà più interessanti e difficili da acquisire nei prossimi anni in azienda, da utilizzare esclusivamente nelle mie birre.

E ora, una delle domande più importanti per me, come botanico. Quali sono le erbe o le piante non comuni che usi per brassare?
La Nuova Zelanda ospita alcune specie di piante commestibili davvero affascinanti: Kawakawa (Piper excelsum) è una di quelle specie che ho usato un po’ nella mia birra, sia commercialmente che fatta in casa. Le parti utilizzate sono le foglie che conferiscono un sapore delicato e pepato. Possono essere utilizzate anche le spighe di fiori essiccati, molto più pungenti e intense della foglia, conferendo alla birra una nota seducente e fragrante di pepe nero. Altre specie autoctone che ho usato nella mia produzione di birra includono, ma non sono limitate a quanto segue: foglie di tarata o lemonwood (Pittosporum eugenioides) che conferiscono un intenso aroma di olio di limone, che tende a perdersi al palato – è ottimo in una cotta acida; pohutakawa o New Zealand Christmas Tree (albero di Natale della Nuova Zelanda) (Metrosideros excelsa), i fiori, dai quali ho estratto e coltivato con alterni successi lievito di birra vitale, impartiscono un intenso aroma floreale, quasi dolce, sottile, di bacche e miele, e conferisce un bellissimo aspetto colore rosso vivo all’inizio e alla fine di dicembre (da cui il nome comune, Albero di Natale della Nuova Zelanda); manuka o teatree neozelandese (Leptospermum scoparium) – i cui rami si possono usare per filtrare il mosto, e che conferiscono anche un aroma e un sapore terroso e medicinale alla birra.

 

 

Come ti procuri queste piante? Fai foraging da solo o chiedi a qualcuno di farlo per te?
Siamo abbastanza fortunati qui in Nuova Zelanda: abbiamo molte aree con vegetazione e piante autoctone. Voglio dire, quello che rimane è niente in confronto a come sarebbe apparso 200 e più anni fa, prima della colonizzazione, del disboscamento, etc., ma è comunque dannatamente ricco. È disapprovato (e in realtà anche illegale) rimuovere la flora autoctona dai parchi nazionali, il che è abbastanza giusto in quanto si vuole preservare tali aree per le generazioni future, ma molto spesso puoi accedere a queste specie su proprietà private che includono cespugli nativi o coltivandole tu stesso. Mi piace raccogliere ciò che userò io stesso – è più speciale in questo modo e almeno sai con certezza da dove viene.

Come funziona il processo di scelta delle piante autoctone (alcune piante piuttosto che altre) da utilizzare in ogni specifica birra?
In genere, quando scelgo l’idoneità di una pianta (comprese quelle native) per una birra, cerco di ottenere caratteristiche complementari piuttosto che contrastanti. Il miglior esempio che posso dare di quanto affermato sopra – usando le foglie di Pittosporum eugenioides in una cotta acida. Le foglie di questa specie conferiscono un aroma fragrante e intenso di olio di limone che si apre pienamente quando vengono schiacciate e quando vengono aggiunte tardi nella caldaia ad una base inacidita che ha già quel carattere acido sottostante. Hai l’impressione che ciò che stai bevendo contenga limoni veri sia da sola che per la combinazione di acidità e fragranza e questa è la ragione per cui mi piace utilizzarlo.

Hai un riferimento specifico che ti aiuta nella scelta, una sorta di Bibbia botanica sulla flora utile nativa della Nuova Zelanda?
Certo! Si tratta del libro “A Field Guide to the Native Edible Plants of New Zealand” di Andrew Crowe (si tratta di un manuale tascabile di circa 200 pagine molto pratico e ben fatto, corredato di disegni a china e fotografie, comprendente nomenclatura scientifica, maori e inglese, utili descrizioni e informazioni sulla commestibilità di circa 190 specie vegetali originarie del Nuova Zelanda ed adatte al consumo umano – N.d.A.).

 

 

Raccontaci le birre che ottieni da queste fermentazioni selvagge e piante autoctone.
Oltre a quanto già illustrato in precedenza ho in programma di utilizzare la mia birra da fermentazione spontanea e poi blended come base per creare combinazioni di sapore ed aroma uniche, grazie all’aggiunta di varie foglie, bacche e cortecce autoctone.

Quella che nel recente passato era una nicchia nel mondo della birra, ristretta a pochi appassionati – il mondo della fermentazione alternativa, compresi i lieviti appartenenti ai Brettanomyces e i batteri dei generi Lactobacillus e Pediococcus, – sta ora diventando un mercato mondiale in crescita, un importante contributo alla rivoluzione mondiale della birra artigianale. Quanto è importante, secondo te, questo contributo?
Credo che ci sia un tempo e un luogo per l’applicazione prevista, od anche per incoraggiamento, se ci arriva involontariamente, di Brett-, Lacto- e Pedio- nella birra. Dipende tutto dallo stile e da ciò che stai davvero cercando di ottenere. Capisco che questi microrganismi possono rivelarsi abbastanza polarizzanti per la maggior parte delle persone che non hanno familiarità con essi. Personalmente, sono attratto dagli elementi positivi che la promozione di un microrganismo come il Brett- può fornire ad una birra, come l’esterificazione di alcuni composti aromatici piacevoli o l’assimilazione di zuccheri complessi altrimenti non fermentescibili (nel caso di ceppi STA1+, etc.) lasciando nelle birre un aroma più complesso e gradevole, ed anche un finale più secco. Esempi come questo possono anche essere usati come basi uniche per la miscelazione con altre birre e/o frutta/erbe/spezie per creare alcune birre incredibilmente complesse.

How potentially big is, in your opinion, the global market space for in general?
Quanto è potenzialmente grande, secondo te, lo spazio del mercato globale per le farmhouse ales e per le wild fermentation beers in generale?
È un mercato di nicchia, ma in crescita. In generale, le birre che rientrano in queste classificazioni di solito richiedono più tempo e dedizione rispetto agli stili convenzionali, sono prodotte in volumi più piccoli e sono meno accessibili alle masse, il che per certi aspetti le rende più speciali quando finalmente si arriva ad assaggiarle. Questi potrebbero essere tutti visti come fattori che contribuiscono direttamente e le ragioni per cui possono imporre prezzi più elevati sul mercato. Alcuni dei produttori di lunga data ed eccezionali di questi stili di birre sono persino visti da alcuni come uno status di culto – Cantillon ne sarebbe un buon esempio.
Con NINEBARNYARDOWLS, non ho l’aspirazione di diventare qualcosa di più grande di quanto possa gestire da solo o con l’aiuto di una piccola squadra. Per quanto voglio che tutti nel mondo provino il mio prodotto, penso anche che crescere troppo significherebbe sminuire la qualità e l’etica di ciò che spero di ottenere un giorno. È l’intero scenario della qualità rispetto a quello della quantità.

Dr. Jekyll & Mr. Hyde a parte, certo la tua vita è in qualche misura davvero a cavallo tra due diversi mondi brassicoli. Il primo, quello del birraio canonico, ti dà le basi per vivere, e l’altro, l’alchimista-microbiologo-botanico-birraio, alimenta la tua passione per le birre non convenzionali. Rimarrai sempre sospeso tra questi due mondi o stai immaginando di diventare un sognatore a tempo pieno e guadagnarti da vivere nel tuo futuro birrificio atipico?
Adoro il mio lavoro quotidiano come birraio “tipico”: faccio parte di un piccolo team affiatato e imparo costantemente e creo birre nuove ed eccitanti mentre guadagno uno stipendio. Ho la sicurezza del lavoro e la libertà di sperimentare con le mie birre. Tutto quello che sto imparando è trasferibile alla mia birra “atipica”. Posso dire con certezza che un giorno farò il passaggio astrale dalla birra tipica a quella atipica, ma per ora sono felice di giocare con entrambi. Le birre a fermentazione spontanea/selvaggia che sto producendo nella fattoria dei miei genitori richiedono un ingrediente chiave: quell’ingrediente è il tempo e loro ne hanno in abbondanza. Sono contento dei progressi che ho fatto da quando ho messo giù il mio primo lotto commerciale in coolship nell’inverno australe del 2017, ma c’è ancora così tanto da imparare. Voglio essere in grado di entrare in contatto con altri birrifici/blender che lavorano con fermentazioni spontanee/selvagge in tutto il mondo per collaborare sia alle idee che alle birre, ma non credo di essere ancora del tutto pronto!

 

 

È difficile credere quanto davvero possano contare le affinità tra gli esseri umani ed i loro pensieri, le loro sensibilità, le loro aspirazioni. Probabilmente, almeno in certi casi, le affinità contano più dei natali e della stessa geografia che sembrano separare. La distanza che fisicamente mi separa da questo arguto ragazzone neozelandese, e che si potrebbe immaginare capace di interporre anche insormontabili barriere culturali, oggi sembra quasi non esistere. Al contrario, rispetto alle attualissime tematiche della salvaguardia ambientale, alla valorizzazione delle risorse biologiche locali, alla stessa consapevolezza individuale sul ruolo che ciascuno di noi può e deve giocare come potenziale contributore alla soluzione dei problemi ambientali che affliggono l’intero pianeta, raramente mi sono sentito vicino a qualcuno come questa volta. Uno strano scherzo del destino ha voluto, a dispetto delle affinità etiche e della passione per l’ambiente e la birra, che vivessimo agli antipodi di questo piccolo pianeta. Ma conta poi davvero così tanto questa distanza? Credo di no. Il rispetto per l’ambiente e le materie prime, l’umiltà di questo grande birraio non finiscono di sorprendermi e di giustificare la mia ammirazione. Brayden oggi è il mio fratello neozelandese, e se ci sarà concesso, forse un giorno non troppo lontano, ci incontreremo di persona e sorseggeremo uno dei suoi incredibili wildcrafted sour blend, cullati dalla fresca brezza di un rosso tramonto antipodiale.

 

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Giuseppe Caruso
Info autore

Giuseppe Caruso

Docente di Botanica Forestale presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, nonché insegnante di Scienze Naturali e Biotecnologie Agrarie presso l’Istituto Tecnico Agrario “Vittorio Emanuele II” di Catanzaro, botanico (consulente scientifico per enti pubblici, privati, professionisti), disegnatore botanico, beerlover, beer sommelier.
Diploma di Perito Agrario presso l’Istituto Tecnico Agrario “Vittorio Emanuele II” di Catanzaro, Laurea in Scienze Agrarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, Dottorato di Ricerca in Botanica Ambientale ed Applicata presso l’Università Politecnica delle Marche di Ancona.
Membro di diverse associazioni scientifiche: Organization for Phyto-Taxonomic Investigation of the Mediterranean Area, Società Botanica Italiana, Società Italiana di Scienze della Vegetazione, Società Italiana di Biogeografia, Society for Economic Botany, International Biogeography Society.
Pubblicate numerose ricerche scientifiche sulla flora dell’Italia Meridionale nei campi della tassonomia vegetale, floristica, vegetazione, conservazione, museologia, didattica e divulgazione scientifica. Principali interessi scientifici: ricerca botanica (tassonomia vegetale, floristica, vegetazione), analisi fitogeografico-vegetazionale (metodo fitosociologico e geosinfitosociologico dinamico-catenale), ecologia vegetale, conservazione e valorizzazione delle risorse naturali, recupero aree degradate e gestione verde urbano, sentieristica naturalistica, analisi/planning dei processi formativi, outdoor environmental education.
Libri pubblicati: Guida al riconoscimento di alberi, arbusti, cespugli e liane del PN della Sila (PN Sila, 2011), Andar per piante tra terra e mare – Escursioni botaniche sulle coste della Calabria (Koeltz Scientific Books, 2015). Nell’ultimo libro, La Botanica della Birra (Slow Food Editore, 2019), frutto di un lunghissimo lavoro di documentazione, unisce due grandi passioni, la botanica e la birra, raccontando con rigore scientifico le proprietà brassicole di oltre 500 specie vegetali impiegate nel brassaggio. Lo stesso libro è stato tradotto in inglese e pubblicato nel 2022 come The Botany of Beer dalla Columbia University Press (New York, US).